Whirlpool a Napoli

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    Royston Vasey

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    19 OTTOBRE 2019

    Chiunque arrivi a Napoli dall’autostrada si accorge presto che lo stabilimento Whirlpool è uno dei pochi siti industriali rimasto ancora attivo nell’ex quartiere industriale di San Giovanni. L'ho studiato dal punto di vista della sua composizione operaia alla fine degli anni Novanta, in occasione della mia tesi di dottorato. In quel periodo la fabbrica aveva quasi concluso un ricambio generazionale della sua forza lavoro grazie a un accordo specifico tra sindacato e azienda che prevedeva l’ingresso dei figli degli operai ormai prossimi alla pensione. All’epoca si producevano circa un milione di lavatrici l’anno.

    Nel 2003 per la milionesima lavatrice ne venne prodotta una interamente nera: fu naturalmente un’occasione di festa e di orgoglio per una fabbrica dalle solide radici sociali, da sempre impegnata sul fronte della solidarietà attraverso il dinamismo delle organizzazioni sindacali presenti al suo interno.

    Che cosa rappresentava la Whirlpool allora e che cosa rappresenta ancora oggi a Napoli? Non solo un importante bacino di occupazione – per quanto ridottisi gli addetti dai 650 di fine anni Novanta agli attuali 420 – ma anche la resistenza della Napoli industriale e operaia, un esempio molto positivo sul piano della contrattazione aziendale, e soprattutto un presidio democratico in una città un tempo fortemente industrializzata.

    La Whirlpool di Napoli in questi anni è stata anche un’importante realtà sul piano delle iniziative culturali e sociali, grazie all’attività del suo Cral aziendale; e una rilevante presenza industriale in un territorio quotidianamente pervaso dalla disoccupazione, dall’irregolarità dei rapporti di lavoro e da fenomeni di criminalità diffusa.

    Ma l’importanza di una fabbrica, la cui storia parte dai primi lavori di costruzione avviati nel 1957, va colta necessariamente al di là delle questioni di natura industriale e occupazionale. Per le grandi aziende è stato sempre così, ancora di più in contesti contrassegnati dalla penuria di investimenti. Qui iniziano a lavorare, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, giovanissimi operai e operaie (tra i 15 e i 20 anni), che dapprima vengono avviati al lavoro negli stabilimenti Ignis di Varese di Giovanni Borghi. È infatti Borghi che, beneficiando dei finanziamenti dell’intervento straordinario, costruisce la nuova fabbrica dopo avere acquistato una piccola impresa di elettrodomestici del napoletano. Nei primi anni la fabbrica, quando ancora molti componenti della lavatrice sono prodotti internamente, arriva a occupare 1.200 addetti.

    Gli anni Sessanta sono gli anni della crescita, ma anche del conflitto sindacale, del superamento delle commissioni interne che, anche nel caso di questo stabilimento, sfocia nella nascita del Consiglio di fabbrica. Poi già all’epoca si verificano le prime fusioni nel settore degli elettrodomestici. La Philips rileva il gruppo Ignis tra 1969 e 1972, ma l’intenzione del gruppo olandese è quella di escludere dall’acquisizione proprio lo stabilimento di Napoli, considerato il più conflittuale tra quelli del gruppo. In realtà la solidità delle sue rappresentanze sindacali è il vero problema per i nuovi acquirenti. Tuttavia, proprio la capacità contrattuale e la solidarietà espressa da tutta la cittadinanza evitano la chiusura dello stabilimento.

    All’inizio degli anni Novanta è la volta di Whirlpool. Lo stabilimento registra un importante accordo sindacale che garantisce un significativo aumento della produttività e investimenti ulteriori. Ciò rende possibile un processo di ringiovanimento della fabbrica con l’ingresso massiccio di molti figli degli operai prossimi alla pensione, o quasi: tra il 1986 e il 1998 si contano 326 assunzioni, principalmente tramite contratti di formazione e lavoro. Si tratta di giovani lavoratori, per quasi la metà diplomati e con una cultura del lavoro più attenta alle esigenze organizzative della fabbrica, ad esempio proprio in relazione al tema della produttività. Si tratta di un aspetto estremamente funzionale al raggiungimento di buoni risultati sul piano della contrattazione aziendale. Sono gli anni in cui la produzione cresce fino ad arrivare alla fatidica milionesima lavoratrice. Una situazione che beneficia delle buone performance nei mercati esteri, dall’Inghilterra passando per il Brasile, nel contesto di una diversificazione degli investimenti della multinazionale americana che mantiene la sede centrale del gruppo italiano a Cassinetta, in provincia di Varese, e così il resto degli altri stabilimenti (in anni recenti chiuderà solo quello di frigoriferi a Trento). Già in questo periodo le produzioni dello stabilimento slovacco rappresentano un potenziale concorrente, cui si aggiunge in seguito anche quello polacco. Oggi, nel mondo, la Whirlpool ha 8 stabilimenti dediti alla produzione di lavatrici.

    Da diversi anni la fabbrica di Napoli era destinataria di un prodotto di alta gamma, la Omnia, che, considerando il costo del lavoro rispetto agli altri Paesi, giustificava la permanenza della sua produzione in Italia. Poi l’acquisizione negli ultimi anni del gruppo Indesit ha determinato un esito in parte prevedibile per le filiali dei grandi gruppi localizzate nel Mezzogiorno, le quali sembrano pagare un prezzo più alto in occasione dei processi di ristrutturazione. La Omnia è entrata, di fatto, in concorrenza con un altro modello di lavatrice di cui ormai condivide la piattaforma, l’Aqualtis, prodotto nello stabilimento marchigiano Indesit di Comunanza, mentre lo stabilimento Indesit di Teverola, in provincia di Caserta, è destinato a una produzione assai marginale (in termini di volumi) di piani cottura, con una drastica riduzione dell’organico.

    Le piattaforme dei due modelli di lavatrici sono state unificate anni fa e la progettazione di un nuovo modello è tuttora in corso. Del resto l’accordo del 2018 sottoscritto dalla Whirlpool per il rilancio dello stabilimento di Napoli prevede proprio lo sviluppo di nuovi prodotti. Inoltre, come in molte altre vicende industriali, in Campania, come nel resto del Mezzogiorno e sempre di più nel resto del nostro Paese, il ricorso prolungato ai contratti di solidarietà da 5-6 anni a questa parte ha determinato, di fatto, la rinuncia da parte dell'azienda a nuovi investimenti, non tanto sullo stabilimento in sé quanto sul prodotto. Ecco allora che dalle 370 mila lavatrici prodotte nel 2017 si è passati alle 330 mila del 2018, rispetto a una capacità produttiva perlomeno doppia sulla base del numero di addetti ancora presenti.

    La vicenda dello stabilimento di Napoli è la ripetizione di una rappresentazione che va in scena ormai da molto tempo. Il modello dell’“impresa irresponsabile” denunciato anni fa da Luciano Gallino è continuamente all’opera, ma altrettanto irresponsabilmente i governi nazionali non danno la giusta importanza alle politiche industriali e a un effettivo sostegno agli investimenti pubblici e privati nel settore industriale del nostro Paese. Stando così le cose è difficile dire per quanto tempo ancora potremo restare la seconda manifattura d’Europa, ma certo, e il caso Whirlpool sta lì a dimostrarlo, le cose non sembrano promettere bene.

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    Bisogna partire dall’epilogo per capire perché la vicenda Whirlpool racconta di un vizio. Quello di un Governo, ancor più dei 5 stelle, che ha iniettato nel sistema industriale italiano l’illusione che l’interventismo di Stato possa essere la panacea dei suoi mali. Dove per interventismo non si intende la forma pubblica o semipubblica da conferire a un’azienda in crisi, ma i post trionfalistici dei ministri su Facebook, i selfie di festeggiamento, i sottotitoli dei capitalisti brutti e cattivi piegati all’obbedienza, l’occhio strizzato ai lavoratori, gli accordi autocelebrati come definitivi. Tutto questo è successo anche con lo stabilimento Whirpool di Napoli. Ed eccolo l’epilogo: l’amministratore delegato si presenta al tavolo del Governo e dice che tra sette giorni la produzione si ferma. L’angoscia e la rabbia dei 350 operai e delle loro famiglie, uno sciopero proclamato con un Paese nel pieno della pandemia, le invettive dei ministri contro l’azienda per parare i colpi dell’incapacità di fermare la fuga.

    E ora la storia bisogna riprenderla dall’inizio, meglio dall’aggiornamento più recente perché le sorti di questo stabilimento hanno una genesi lunghissima. Il 25 ottobre 2018 il Governo, l’azienda e i sindacati firmano un accordo. In fondo al documento c’è la firma di Luigi Di Maio, allora ministro dello Sviluppo economico. Alle spalle c’è il piano industriale 2015-2018 che è stato disatteso. Colpa - come riporta la premessa dell’intesa successiva - “della grande aggressività dei competitors”. E poi anche della Brexit, della svalutazione della sterlina e della crescita del prezzo delle materie prime. Insomma tutto va male e allora l’azienda, il 17 maggio 2018, presenta l’andamento del piano e scrive che “nonostante la realizzazione di tutti gli impegni previsti non è stato possibile raggiungere gli obiettivi di crescita previsti dal piano stesso”. L’azienda fa di più: prepara un piano 2019-2021 per portare a compimento quello precedente. Ecco allora che interviene il Governo, che accompagna il tentativo con riunioni e tavoli al Mise. Fino appunto all’accordo sul nuovo piano. Dentro c’è scritto che la produzione in tutti gli stabilimenti italiani, quindi anche a Napoli, va avanti con grandi rassicurazioni, soldi e un orizzonte temporale fissato al 2021, da intendere non come termine ultimo dell’esperienza industriale, ma solo come termine del piano triennale. Insomma nessun riferimento a un possibile addio, tutto il contrario. C’è addirittura una sottolineatura su quanto il piano “rafforza ulteriormente la specificità di ogni sito produttivo e la sua sostenibilità”. Si mettono nero su bianco 250 milioni di investimenti per il triennio. E su Napoli si scrive che continuerà a produrre lavatrici di alta gamma, con “significativi investimenti sul prodotto e in particolare sulle estetiche” nella prima metà del 2020. E per farlo potrà contare su 17 milioni di investimenti. E - dato particolarmente rassicurante - nessun licenziamento, al massimo ammortizzatori.

    Firmano tutti e partono i festeggiamenti. Post di Di Maio: “Ce l’abbiamo fatta”. Segue una raffica di titoli, tra cui spicca “nessuno perderà il posto di lavoro”. E il commento, accompagnato dall’immagine del tricolore: “Sono quindi orgoglioso di dire che ce l’abbiamo fatta: stiamo riportando lavoro in Italia”. Quello che accade dopo è un precipitare repentino della situazione. In meno di sei mesi dall’accordo festeggiato. Il Governo ritiene che è stato fatto tutto e al Mise non si tengono più riunioni su Whirlpool. Ma ad aprile Di Maio si ritrova una lettera sulla scrivania. Scrive Whirpool: caro ministro, noi vogliamo vendere lo stabilimento di Napoli. La lettera finisce al centro di uno scambio di accuse con l’ex titolare del Mise Carlo Calenda perché la notizia di quella lettera viene comunicata da Di Maio a maggio. Dopo le elezioni europee. E invece Calenda sostiene che quella missiva è arrivata ad aprile. Per fermare la fuga, il Governo mette 16,9 milioni a disposizione di Whirpool con il decreto salva-imprese approvato dal Consiglio dei ministri il 6 agosto, ma anche questo tentativo fallisce. È il 17 settembre del 2019 quando l’amministratore delegato di Whirlpool Italia, Luigi La Morgia, si presenta al ministero dello Sviluppo economico per annunciare che all’indomani sarebbe scattato il procedimento di cessione del ramo d’azienda per la sede di Napoli. Però - rassicura - il nuovo partner Prs riconvertirà la produzione e tutti i lavoratori non perderanno il posto. Il piano di Di Maio è già saltato. Partono le proteste degli operai, i sindacati indicono scioperi e manifestazioni.

    Passano tredici giorni e il 30 settembre Stefano Patuanelli, che intanto ha raccolto il testimone di Di Maio al Mise, si presenta con un video su Facebook per festeggiare il dietrofront dell’azienda. Ma l’azienda, in un comunicato stampa diramato qualche ora dopo, mette le mani avanti: “Va cercata una soluzione condivisa, a fronte di una situazione di mercato che rende insostenibile il sito e che necessita di una soluzione a lungo termine”. Una frase che mette ben in luce la precarietà dell’impegno a proseguire in un impegno strutturale, ma tant’è perché per il Governo una soluzione tampone è sempre meglio di una non soluzione. Intanto Prs si tira indietro. Dopo due mesi Whirpool annuncia che andrà via da Napoli il 31 ottobre. L’amministratore delegato riversa sul tavolo di Patuanelli l’assenza di una “sostenibilità economica della produzione di lavatrici” e la data dello stop dell’impianto.

    È da quella data, dal 30 gennaio, che il Governo sa del bye bye dell’azienda. Ma da quella data ad oggi, con otto mesi di preavviso, cosa è stato fatto? Invitalia è stata messa a caccia di un cavaliere bianco, ma intanto si è andati avanti anche con la convinzione che quell’addio potesse essere evitato. E invece giovedì l’amministratore delegato di Whirlpool si è presentato al Mise e ha confermato lo stop della produzione tra una settimana. La sottosegretaria al Mise Alessandra Todde ha pensato di risolvere il tutto con un tavolo permanente, e al ministero, secondo quanto riferiscono fonti di Governo, c’è un piano B per garantire la piena occupazione dei 350 lavoratori, ma i sindacati non ci credono più. Dice Gianluca Ficco, segretario nazionale della Uilm, a Huffpost: “La nostra protesta non è solo contro l’azienda che non ha rispettato gli accordi, ma anche contro il Governo che gli accordi non è riuscito a farli rispettare”. Partono le proteste e i presidi fuori dai cancelli di tutti gli stabilimenti, il 5 novembre sarà sciopero. Tra i sindacati e tra i lavoratori nessuno crede al piano B. Dice sempre Ficco: “Sono mesi che ci parlano di piani B, ma fino ad ora hanno proposto solo alcune assunzioni a spezzatino per fare le batterie all’idrogeno, che non sono neppure brevettate, o componenti per il settore aereo che è uno dei settori più colpiti dal Covid e che non ha certo bisogno di nuova produzione. Tutte cose folli, campate per aria”. Il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ritiene che bisogna insistere sul piano A, cioè impedire la cessazione delle attività. I sindacati tirano in ballo Conte. Con gli operai davanti ai cancelli non c’è nessuno del Governo, né qualcuno, con eccezione di Provenzano, si sbraccia per dire che il disimpegno dell’azienda è inaccettabile. Semplicemente se ne prende atto. In fondo è andata così anche per l’ex Ilva o per Autostrade: accordi firmati e festeggiati. E poi ancora da chiudere dopo rispettivamente otto e tre mesi. Per il Governo avevamo già l’Ilva green e la nuova Autostrade senza i Benetton e in mano agli italiani. A Taranto si produce come prima, con la differenza che si produce ai minimi storici e si tira a campare con la cassa integrazione. I Benetton sono lì, con il vento poppa perché la vendita dell′88% di Autostrade significa fare profitto. Eccolo il prezzo politico della spregiudicatezza dell’interventismo di Stato autocelebrato sui social.

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    Apro questo topic perché vedo al TG la storia "strappalacrime" di una circa 35enne appena laureata in giurisprudenza con tesi sulla globalizzazione vista attraverso la rabbia del suo povero babbo licenziato dalla Whirlpool di Napoli mentre lui è lì, orgoglioso, e dice "non potrò più pagarti l'università", e trattiene le lacrime.

    Io ci vedo una cosa malatissima :psy:
    1 - Cosa devi pagarle l'università che si è laureata? Voleva fare il master? Per poi starsene disoccupata col master a 36, 37 anni?
    2 - Tua figlia è grande e grossa e pure laureata cos'è sto dramma di una famiglia rovinata perché il capofamiglia ha perso il lavoro e riceverà la disoccupazione :etna:
    3 - La globalizzazione ha dato lavoro a tuo padre per 20 anni e ora scrivi la tesi su quanto è brutta e cattiva? :psy: Lo sapete che la Whirlpool non è un'azienda italiana che sta dislocando all'estero, sì?
    4 - La storia della Whirlpool ve l'ho messa qui sopra. Al TG vogliono far passare il fatto che questi lavoravano onestamente e da un giorno all'altro li hanno licenziati in tronco. Tra l'altro sono solo 350 persone e non capisco perché i loro drammi siano tema all'ordine del giorno da mesi ormai

    Qualche settimana fa per curiosità sono andata a vedere le migliori 50 aziende dove lavorare secondo Glass door, poi sono andata a cercare quelle stesse aziende su linkedin per vedere i lavori offerti e ho trovato un centinaio di offerte per ruoli in Italia e o da remoto per figure legali o afferenti all'economia aziendale. Che una laureata in legge non trovi niente non ci credo nemmeno se lo vedo. Cosa frena una 35enne con i genitori disoccupati dall'emigrare 100km a nord per trovare un lavoro per pagarsi da mangiare?
    Ve lo dico io cosa: l'idea che un lavoro è e debba essere per sempre. E che un genitore c'è per sempre. Magari anche da pensionato, continua ad esserci, all'infinito. E magari pure da morto, basta che nascondi il cadavere e puoi continuare ad intascare la pensione :vincente:

    Leggendo la storia della fabbrica mi si è accapponata la pelle:

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    In quel periodo la fabbrica aveva quasi concluso un ricambio generazionale della sua forza lavoro grazie a un accordo specifico tra sindacato e azienda che prevedeva l’ingresso dei figli degli operai ormai prossimi alla pensione

    Lavori ereditati, cosa leggono i miei occhi :azrael:
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    La Philips rileva il gruppo Ignis tra 1969 e 1972, ma l’intenzione del gruppo olandese è quella di escludere dall’acquisizione proprio lo stabilimento di Napoli, considerato il più conflittuale tra quelli del gruppo. In realtà la solidità delle sue rappresentanze sindacali è il vero problema per i nuovi acquirenti. Tuttavia, proprio la capacità contrattuale e la solidarietà espressa da tutta la cittadinanza evitano la chiusura dello stabilimento.

    Una precarietà con origini nei primi anni 70
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    il ricorso prolungato ai contratti di solidarietà da 5-6 anni a questa parte ha determinato, di fatto, la rinuncia da parte dell'azienda a nuovi investimenti, non tanto sullo stabilimento in sé quanto sul prodotto. Ecco allora che dalle 370 mila lavatrici prodotte nel 2017 si è passati alle 330 mila del 2018, rispetto a una capacità produttiva perlomeno doppia sulla base del numero di addetti ancora presenti.

    Poi tutto l'articolo sui 5 stelle che cercano di salvare la fabbrica è una roba :eric:
     
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    Speravo in risposte fuoco e fiamme come quelle date a etna :pollo: Dov'è maro a indignarsi quando serve :pollo:
     
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