L'animazione giapponese nella prospettiva asiatica

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    Ghəi Chinəsi

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    Orietta Berti Fanz
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    Mentre rovistavo tra i file dell'università ho ritrovato questa relazione che ho scritto nel 2017 per un ciclo di conferenze (Asian Community: Encounters Between Korea, China and Japan) molto interessante, che andava approfondire i rapporti culturali, economici e politici tra vari Paesi appartenenti alla comunità asiatica. Mi sembrava uno spreco lasciarla lì a marcire visto che poi neanche mi sono serviti i crediti che mi ha dato :dhh: tanta fatica per niente.
    L'intervento era quello della professoressa Maria Roberta Novielli dell'Università di Venezia Ca' Foscari, durante la quale ha illustrato la diffusione e la distribuzione dall'animazione giapponese nell'Asia, e l'influenza che ha avuto, tanto sull'aspetto materiale delle produzioni artistiche quanto su quello culturale. Non c'ho voglia di stare a rielaborare la sbrodolata di parole lunghissime che ho dovuto inserirci per raggiungere il minimo dei caratteri :danaparte: quindi ve la beccate anche con i rimandi all'intervento de la profesora. Comunque molto interessante, lo avevo anche proposto come possibile tesi alla relatrice, che però alla fine ha scelto una cosa su letteratura e diritti umani, ma va bene lo stesso. Prima o poi parlo anche di quello tanto ci stanno in mezzo comunque i mangos.


    Cosa sono gli anime?

    Riconosciuti a livello internazionale con il nome di anime (abbreviazione di animēshon, animation, animazione), neologismo in uso in Giappone dagli anni settanta – comunemente utilizzato in Occidente per indicare le opere di animazione esclusivamente giapponesi – come conseguenza dell'incredibile popolarità acquisita negli anni.
    Quando si parla delle origini del fumetto e dell'animazione giapponese si tende a definirli un naturale sviluppo della tradizione culturale, estetica ed artistica locale. La nascita viene solitamente collocata sul finire del Periodo Edo (1800 circa), epoca intorno alla quale alcuni pittori si concentrarono sulla riproduzione di sequenze di movimenti. È frequente vengano ritenuti un'evoluzione degli Emakimono (opere narrative su rotoli di carta o seta, andate a svilupparsi intorno al XI e il XVI secolo, che accostavano testo e immagini) e degli Ukiyo-e ("immagini del mondo fluttuante", serie di stampe prodotte tra il XVII eil XX secolo, raffiguranti varie scene o personaggi popolari), individuando Katsuhika Hokusai come inconscio predecessore dei manga contemporanei. Hokusai, tra il 1814 e il 1878, pubblicò una raccolta di bozzetti raffiguranti scene di vita quotidiana, umoristiche e grottesche, chiamati appunto Hokusai manga – "manga" è il termine giapponese che indica i fumetti in generale, usato invece nel resto del mondo per indicare solo i fumetti provenienti dal Giappone. Personalmente trovo difficile non rivedere anche una minima connessione con il Kamishiba, un teatro di carta che ebbe origine nel XII secolo e rimase nella tradizione giapponese per secoli, dove venivano usati emakimono o tavolette di legno dipinte a fare da sfondo alla narrazione.
    La professoressa Maria Roberta Novielli va però, giustamente, a sottolineare l'influenza che i magazine europei e le vignette occidentali hanno avuto sui giapponesi, arrivate nelle edizioni locali dei riviste come Punch (un'importante rivista satirica inglese); enfatizzando soprattutto sulle opere d'animazione americane, uno scenario già florido grazie alla produzione dei Fleischer Studios e della Walt Disney Production. Infatti i primi veri pionieri dell'animazione giapponese rimasero talmente colpiti dai primi cartoni animati occidentali, da richiamarne lo stile nelle rispettive opere, non solo a livello iconografico. Mi sento, a questo punto, in dovere di aggiungere che i primi Senga Eiga ("film di linee") i filmati d'animazione dell'epoca, risalenti al 1917 ed attribuibili ad autori come Seitaro Kitayama, Oten Shimokawa e Jun'ichi Kōuchi, erano prodotti con tecniche rudimentali ancora in via di sperimentazione, ben lontani da quella che oggi rappresenta una delle industrie più all'avanguardia e influenti nel mondo.


    Astro Boy, il primo anime negli USA

    Uno dei nomi che è impossibile non fare e anche la professoressa Maria Roberta Novielli propone, è quello del forse più grandi maestro del fumetto e dell'animazione giapponese: Osamu Tezuka, anche chiamato "il dio dei manga".
    Egli si ispirò proprio ai grandi classici Disney, di cui era sempre stato appassionato, e ai personaggi caricaturali dei fratelli Fleischer, infondendogli uno stile proprio, negli anni rimasto caratteristico e diventato iconico per l'intera produzione giapponese. Tezuka scrisse e disegnò circa 700 fumetti per oltre le 150.000 pagine, ma la sua carriera prende lo slancio – verso quella che sarà una delle più prolifiche dell'intero Giappone – nel 1947 grazie a La nuova isola del tesoro, un'opera di 200 pagine basata sul romanzo L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, la quale ebbe un grandissimo successo e andò a gettare le basi del fumetto giapponese moderno. Da questa sua opera piena di enfasi e dinamismo – al contrario delle tavole statiche caratteristiche della produzione di quegli anni – e dalle inquadrature quasi cinematografiche, possiamo dedurre quali furono le intuizioni che portarono Tezuka a sfondare anche nel mondo dell'animazione.
    Benché la versione cartacea di Kimba, il leone bianco (1950) sia stata pubblicata qualche anno prima di Astro Boy (1952), riscontrando anche un discreto successo, la prima serie animata di produzione indipendente di Tezuka fu proprio la trasposizione del secondo titolo.
    In un Paese uscito da sette anni di occupazione americana e di censura – ai cittadini giapponesi non era permesso criticare gli Stati Uniti – il cui popolo era spaventato dalla tecnologia occidentale, dopo la guerra e lo sgancio delle due bombe nucleari, il bambino robot frutto delle ricerche scientifiche riportava pace ed infondeva fiducia, grazie alla sua umanità. Astro Boy era nato da quella tecnologia che il popolo temeva, ma la snaturava estirpandone ogni accezione negativa, riavvicinandola quindi agli esseri umani. Rappresentava lo spirito asiatico, l'approccio che gli orientali avevano con la scienza e la tecnologia, più umana e responsabile delle sue azione, usata non a discapito della povere gente, ma ad aiutare i più deboli.
    Nel 1961 Tezuka fondò la Mushi Production e il 1° gennaio 1963 fu mandato in onda il primo episodio di Astro Boy (quattro stagioni e 193 episodi della durata di 30 minuti l'uno, trasmesso fino al 1966). Si trattava di una vera e propria scommessa; Tezuka era convinto di poter emulare la fluidità dell'animazione occidentale, ma ben presto gli studi Mushi accumularono ritardi nella produzione ed egli stesso si rese conto di non essere in grado di gestire contemporaneamente sia il lavoro da fumettista che quello da animatore. Numerose furono le modifiche nei ritmi della storia e nei registri narrativi, talvolta rendendo le scene ansiogene e molto più drammatiche. Tezuka decise allora di utilizzare gli strumenti della cinematografia dal vero, un espediente per risolvere i problemi legati alla staticità di alcune sequenze, ma andando spesso ad intralciare la fluidità della narrazione.
    Sorprendendo l'intero staff degli studi Mushi, che fino a quel momento aveva incrociato le dita sperando in un buon riscontro da parte del pubblico, sempre nel 1963 la serie fu premiata dalla Fuji TV (l'emittente sulla quale veniva trasmessa) per la popolarità ottenuta e la rete televisiva statunitense NBC ne acquisto i diritti facendo di Astro Boy il primo anime ad essere distribuito oltre mare, oltretutto con ascolti molto più alti degli altri show proposti nello stesso periodo. Inconsciamente Tezuka, grazie ad Astro Boy, stava gettando quelle che sono le fondamenta dell'industria dell'animazione giapponese. Sfortunatamente però la popolarità del cartone animato declinò ancor prima che ne terminasse la serializzazione negli Stati Uniti, venendo interrotto all'episodio 104 (su 193). Il fatto che fosse ancora in bianco e nero ne limitava sicuramente le potenzialità, rendendolo poco appetibile all'esigente pubblico americano, ma in particolare a decretarne l'interruzione furono le tematiche talvolta deprimenti e troppo violente per il target a cui era destinato. Era chiaro che gli americani, abituati ai loro cartoon umoristici, fatti di storie divertenti e leggere, non erano pronti agli anime giapponesi che già allora cominciavano ad assumere tratti più profondi e vicini al realismo. Ciò non toglie che dagli anni sessanta il successo del fumetto e dell'animazione giapponese fosse in ascesa in tutto il mondo. Dopo Astro Boy, approdarono negli Stati Uniti anche Kimba, il leone bianco nel 1965 (la prima serie animata a colori di successo) e Superauto Mach 5 nel 1967 (basato sull'omonimo manga di Tatsuo Yoshida e prodotto dallo studio Tatsunoko Productions).


    Anime, manga e manhua: l'animazione giapponese nel resto dell'Asia

    La parte centrale dell'intervento della professoressa Maria Roberta Novielli e che ne dà il titolo, è quella che riguarda la diffusione delle opere giapponesi nel resto dell'Asia, la quale iniziò negli anni sessanta, sull'onda del successo che questi titoli stavano avendo. E il primo nome che viene fatto è quello di Hong Kong.
    Così come la Cina, Hong Kong, gode di una lunga tradizione fumettistica, interrottasi nel 1941 a causa dell'occupazione giapponese, per poi riprendere vigore tra il 1950 e il 1960. Mentre Paesi come la Corea e Taiwan bannavano tutto ciò che provenisse da Giappone, a causa della posizione assunta dal Paese del Sol Levante durante la Seconda Guerra Mondiale nei confronti dei vicini, a Hong Kong l'importazione delle serie giapponesi ebbe un successo inimmaginabile, influenzando fortemente la produzione di quegli anni e, soprattutto, dando vita a numerose imitazioni. Questi fumetti, letteralmente ricopiati e tradotti, nascevano in parte a causa di necessità, poiché i costi dei diritti erano troppo alti e rendevano difficile l'acquisto delle opere originali, ma anche perché all'epoca non veniva dato grande peso all'importanza del copyright. Completamente ridisegnati, senza neanche citare il nome dell'artista originale, il costo di queste opere pirata copriva appena le spese di traduzione e stampa; si trattava di vera e propria concorrenza per gli autori locali.
    Fu però negli anni ottanta che la cultura pop giapponesi ebbe il suo exploit, quando la televisione assunse tanta popolarità da diventare il più importante mezzo d'intrattenimento del Paese. Furono gli anni in cui anime come Candy Candy, Doraemon e Ikkyusan il piccolo bonzo entrarono nelle case di tutti i bambini di Hong Kong.
    Dopo il 1980 i fumetti pirata divennero popolari anche in altri Paesi asiatici, come Taiwan Singapore e Malesia, seppure in alcuni di questi fosse ancora vietata la produzione e la distribuzione di alcune tipologie di prodotti giapponesi.
    Gli autori taiwanesi, che a differenza di quelli di Hong Kong, non avevano né particolari tradizioni legate al fumetto né uno stile definito da cui prendere spunto, assimilarono quanto più possibile le caratteristiche da fumetti e cartoni animati giapponesi, producendo quelle che sono considerate le opere stilisticamente più vicine a manga e anime di tutta l'Asia. Riproduzioni così fedeli da essere prive di elementi di riconoscimento attribuibili a Taiwan ed impossibili da distinguere.
    Accadde questo quando una serie di situazioni favorevoli permisero l'ingresso e la diffusione di un prodotto straniero, influenzando e modificando quelli che erano i generi tradizionali. Ed ogni Paese può essere attratto da caratteristiche differenti di uno stesso prodotto – o tipologia di prodotto. Come nel caso della popolarità avuto da Ikkyusan il piccolo bonzo (1975-1982) in Cina, interessante ed esplicativo esempio che la professoressa Maria Roberta Novielli descrive. Di questa serie furono mandati in onda 104 episodi su 298, dal 1983 al 1988, e questo successo lo deve principalmente ad un protagonista, a dei personaggi e a delle tematiche di facile adattabilità al panorama orientale. Semplicemente perché narrava la storia di un piccolo monaco, di facile interpretazione per le popolazioni di quelle zone e in cui qualunque bambino riusciva ad immedesimarsi.
    Un altro esempio molto interessante fatto dalla professoressa Maria Roberta Novielli, riguardante l'importanza che alcune opere animate giapponesi hanno avuto sul pubblico asiatico, riguarda il lungometraggio animato del 1988, tratto dall'omonimo fumetto di Katsuhiro Ōtomo, Akira.
    Akira ha indubbiamente contribuito alla diffusione e al successo degli anime non solo in Occidente, ma anche in Oriente. Caratterizzato da un panorama distopico e dai tratti cyberpunk, viene oggi considerato come un valido materiale di studio del postmodernismo in università come quelle di Hong Kong.


    Un business legato all'immagine

    È dalla metà degli anni sessanta che prosegue la crescita dell'industria dell'animazione giapponese, conquistando nuovi orizzonti ed espandendosi a livello mondiale. La domanda di serie animate crebbe, le tecniche si affinano, si fecero sempre più complesse e ovviamente aumentano i costi di produzione. Stiamo parlando di un'attività che ai giorni d'oggi richiede circa 80.000 euro per la realizzazione di un unico episodio di 30 minuti.₍₁₎
    Viene quindi naturale chiedersi come venga mandato avanti un settore tanto costoso dove la sola vendita dei diritti non garantirebbero molte entrate – contando che agli inizi i diritti di riproduzione vennero letteralmente svenduti e non erano previste grosse sanzioni per il furto della proprietà intellettuale, tanto che la stessa casa di produzione di Tezuka si trovò più volte in difetto.
    In parte possiamo parlare di contenimento dei costi, è infatti frequente che i grandi studi giapponesi incarichino aziende estere di occuparsi di alcune fasi della produzione, a basso costo, in particolare in Cina, Corea del Sud e nelle Filippine – la Toei Animation ha addirittura aperto filiali fisse in quei Paesi. Ma la risposta effettiva, la stessa che la professoressa ci dà, sta nel modo in cui i giapponesi, furbamente, sono riusciti a costruire un business intorno all'immagine. Fin da subito i personaggi degli anime e dei manga vennero sfruttati a scopi pubblicitari e ancora oggi la maggior parte degli incassi vengono dalla vendita di gadget e merchandising: giocattoli, modellini, capi d'abbigliamento a tema, giochi e varie altre tipologie di articoli.
    Prendendo ad esempio il fenomeno Gundam, di cui la professoressa fa nome tra le opere di maggior successo, un progetto che ha visto la luce nel 1979 con la messa in onda di Mobile Suit Gundam, un anime a tema robottoni (mecha), possiamo chiaramente individuare le strategie di mercato che hanno permesso alla casa di produzione Sunrise di costruire un vero e proprio impero non solo su un gran numero di serie e film animati. L'universo Gundam si espande tra vari numeri a fumetti, romanzi e videogiochi, ma non solo, una vasta produzione di action figure, model kit e gadget vari ne arricchiscono il merchandising. In realtà basta pensare ai mezzi di trasporto giapponesi, spesso decorati con i personaggi storici di manga e anime o con quelli più in voga al momento, oppure alle gigantesche riproduzioni di Gundam e della Going Merry esposti a Odaiba (Tokyo), per comprendere l'importanza che queste opere assumono nella vita di tutti i giorni dei giapponesi – e non solo – tanto rendere dei soggetti in due dimensioni delle icone, degli idoli, se non dei veri e proprio oggetti di culto.
    Trovo sia necessario accennare anche alla diffusione del videoregistratore, negli anni ottanta, e l'espansione del mercato home video, i quali postarono ad un aumento della richiesta, così come della disponibilità all'acquisto da parte degli spettatori. Un importante passo per l'animazione giapponese, la quale portò alla nascita degli Original Anime Video ("video d'animazione originale", abbreviato in OAV o OVA), prodotti d'animazione destinati alla distribuzione home video senza passare per la televisione o per il cinema. La conseguenza fu che molte opere vennero prodotte direttamente per questo tipo di pubblico, ben poco disposto ad attendere la messa in onda. Questi nuovi prodotti non solo erano qualitativamente superiori a quelli trasmessi in televisione, ma permettevano una maggiore libertà creativa. Un settore che sfortunatamente venne influenzato dalla crisi economica degli anni novanta, con conseguente diminuzione della produzione di OAV. Attualmente questa tipologia di anime è ridotta pochi titoli, limitati ad alcune categorie specifiche e spesso indirizzati ad un pubblico maturo – anime che altrimenti difficilmente verrebbero trasmessi.
    Negli anni novanta tornò alla ribalta l'animazione seriale, producendo opere di grande successo come Sailor Moon, Slam Dunk, Dragon Ball e Neon Genesis Evangelion – tra quelle citate durante la conferenza.
    Vorrei soffermarmi per un momento su Neon Genesis Evangelion (1995) di Hideaki Anno, a sostegno di quanto detto finora. Erano anni che non si vedeva qualcosa di così innovativo sulla scena dell'animazione giapponese. Evangelion andò a consolidare i canoni della "nuova animazione seriale", caratterizzata da una maggiore autorialità, da scelte stilistiche e narrative rivoluzionarie, da una trama intricata farcita di citazioni e riferimenti religiosi, da una caratterizzazione dei personaggi più realistica e da un numero ristretto di episodi (26 nel caso di Evangelion, ma molto frequenti sono diventate anche le serie da 13 episodi). Il solo merchandising di Neon Genesis Evangelion incassò trecento milioni di dollari, di cui il 70% solamente dalla vendita dell'edizione laserdisc, dai diversi CD musicali tratti dall'opera e dei primi tre volumi del fumetto.₍₂₎


    Il "Cool Japan" e la globalizzazione

    La crescita commerciale dell'animazione giapponese ed il progredire tecnico e stilistico sempre più all'avanguardia, fu principalmente frutto di un benessere economico e sociale che andava a riflettersi anche sulla produzione artistica. Inoltre lo sviluppo tecnologico portò alla fioritura di un nuovo canale distributivo di cui gli anime ne saranno gli esponenti più influenti.
    Il 20 maggio 1998 viene lanciato Animax, un canale televisivo satellitare giapponese (detenuto dalla Sony), la prima rete attiva ventiquattr'ore su ventiquattro dedicato esclusivamente all'animazione giapponese e presente in tutto il mondo. Infatti Animax, nel 2004, cominciò ad aprire canali collegati in tutta l'Asia, per poi approdare anche in America, Europa, Australia e Africa. Filippine, Taiwan, Hong Kong e India sono solo alcuni dei dodici Paesi asiatici in cui attualmente ci sono canali Animax all'attivo, si stima sia presente in circa 32 milioni di case.
    Non solo gli anime o i manga, la distribuzione di tutta la cultura pop giapponese ha ormai toccato i quattro angoli della terra, portando il mercato giapponese tra i principali a livello mondiale. L'emergere del Giappone come superpotenza attraverso media di interesse giovanile (anime, manga, videogiochi, musica, film, moda ecc.) prende il nome di Cool Japan. Un movimento moderno ed elettrizzante, ma allo stesso tempo superficiale, facile da dimenticare e da sostituire con nuovi elementi di tendenza.
    Analogamente al Giappone, sfruttando principi simili, la Corea del Sud si sta facendo strada sul mercato-globale grazie ai drama e al k-pop, raggiungendo gran parte dei Paesi esteri. Il nome del fenomeno è Korean Hallyu, l'onda coreana che dagli anni novanta si è propagata in tutte le direzioni incrementando la popolarità di un intero Stato e diventando la diretta rivale del Cool Japan.
    I giovani rappresentano un'importante percentuale del pubblico di tutto ciò che è legato al Cool Japan – così come alla K-Hallyu – e negli ultimi tempi è andato ad affermarsi un importante dato: per i giovani d'oggi non è essenziale si tratti di prodotti giapponesi, coreani o americani. Fondamentale è "l'essere moderni", una qualità necessaria per mandare avanti un mercato di questo tipo; così come l'ibridazione e la standardizzazione dei contenuti. I giovani cercano semplicemente qualcosa di nuovo in grado di attirare la loro attenzione.
    Potremmo in questo modo spiegare e giustificare il successo di opere come Dragon Ball o One Piece, tra i prodotti più recenti e popolari del panorama giapponese.
    La professoressa Maria Roberta Novielli prende in esame il secondo dei due titoli, definendo i punti di forza che lo hanno portato ad essere il manga più venduto (entrato nel Guinness dei primati nel 2015 con oltre 320 milioni di volumi venduti) e tra gli anime più visti di sempre (in Giappone ha un ascolto che oscilla tra il 10% e il 13% di share ed è tra le serie più scaricate all'estero).₍₃; ₄₎
    Fin dall'inizio della sua prima pubblicazione, avvenuta il 4 agosto 1997, la critica ne ha apprezzato l'ambientazione e la storia sia avvincente che commovente. One Piece è il classico manga per ragazzi (per usare termini più tecnici fa parte della categoria shōnen, indirizzata ad un pubblico maschile di età scolare), pieno di combattimenti, umorismo e forti valori, con la differenza che il suo autore, Eiichirō Oda, è stato in grado di costruire un vero e proprio mondo all'interno della sua opera, che ha accompagnato i suoi lettori per anni – alcuni addirittura dall'infanzia. Le situazioni sono sempre nuove, così come i personaggi e numerose le sottotrame che si diramano dalla storia principale andando a colmare la necessità del lettore di "sapere".
    Parlando proprio dei personaggi, questi sono numerosissimi – e il riuscire a gestirne così tanti è uno dei più grandi riconoscimenti che si fanno ad Oda – tutti ben caratterizzati e, in particolare, ognuno ha caratteristiche fisiche e psicologiche differenti dall'altro. Modi di pensare e di apparire vari e non sempre identificabili con una nazionalità o un Paese specifico, rendendo difficile riconoscerne l'appartenenza ad un'etnia o un popolo. E sembra sia questo, secondo le parole della professoressa, a rende One Piece tanto popolare, poiché qualunque lettore riesce ad immedesimarsi con i suoi personaggi e ad apprezzarne la storia.
    La globalizzazione però non ha solamente portato la produzione fumettistica e animata giapponese ad espandersi a macchia d'olio, l'ha anche privata della sua identità, perché raggiungere un pubblico tanto lontano e con mentalità differenti, implica un cambiamento sia delle tipologie di informazioni che si vogliono comunicare sia nel modo in cui questo viene fatto – sebbene i giapponesi tendano sempre a lasciare nelle loro opere elementi di riferimento alla propria cultura, seppur appena accentuati.
    Nel 1982 Fred Rothbaum, John R. Weisz e Samuel S. Snyder pubblicarono il loro studio secondo il quale venivano individuati due differenti tipi di "controllo" sulla popolazione, definiti Primary control e Secondary control. La professoressa Maria Roberta Novielli ci spiega come il primo riguardi tutte quelle azioni mosse al fine di influenzare un determinato ambiente, mentre il secondo cerchi di adeguare il singolo alle circostanze. La prima tipologia di controllo viene considerato fallimentare in un Paese come il Giappone, quella che invece viene maggiormente utilizzato in America. In altre parole quando gli americani vogliono vendere un prodotto, cercano di convincere il compratore che quello è ciò di cui hanno bisogno per diventare migliori. I giapponesi invece – gli orientali in generale – tendono a definire il compratore già perfetto così com'è, tanto che gli spot pubblicitari spostano il focus dal prodotto a storie che ne fanno da contorno, lasciando loro libertà di scelta.
    Due sono gli esempi, venuti fuori durante la conferenza, che penso possano adattarsi bene a questa situazione esplicando chiaramente quello che è il modo di pensare dei giapponesi. Uno di questi riguarda Tokyo Disneyland, il primo parco tematico Disney mai costruito fuori dagli Stati Uniti. In questo caso, anche se si parla di prodotti americani, sembrano comunque essere diversi, le sensazioni trasmesse sono differenti; anche i personaggi Disney acquisiscono tratti nipponici. Tutto ciò che viene importato in Giappone è soggetto ad una rivisitazione, rispettando la cultura del Paese e adattandosi ai gusti della popolazione.
    Il secondo, affine, riguarda ciò che accadde con l'acquisto della Columbia Pictures da parte della Sony nel 1985. Il Giappone si integrò nel network dell'informazione e della distribuzione globale, senza però far pesare la sua presenza. Sostanzialmente tutto rimase uguale a livello superficiale, persino il logo della Columbia rimase lo stesso, venne solamente aggiunta una minuscola scritta al di sotto di esso che ne attesta l'acquisizione da parte della multinazionale giapponese. Loro scopo non era quello di entrare in possesso di qualcosa per modificarlo, ma per diventarne parte. Un modo di pensare molto zen e indubbiamente giapponese che si rispecchia anche nella produzione animata e la differenzia dalle opere americane.
    Per distribuire la cultura pop giapponese all'estero viene utilizzato un approccio del genere, specialmente in Asia, dove una pubblicità simile a quella americana non avrebbe effetto. Una delle strategie consiste nella cooperazione con gli altri Paesi e allo stesso tempo nella riduzione delle qualità che rendono un prodotto "giapponese". Anime e manga sono perfetti per questo poiché i loro personaggi presentano caratteristiche fisiche (occhi grandi, visi fini, figure slanciate) difficilmente attribuibili ai giapponesi, spesso le ambientazioni non hanno una provenienza ben definita (potrebbe essere ovunque, in qualunque parte della terra) e hanno una sensibilità vicina a quella delle altre culture dell'asia orientale e del sud-est asiatico, così come la cultura stessa presenta elementi molto simili. Questa flessibilità permette alle opere giapponesi, una volta rimosse dal loro naturale contesto culturale, di inserirsi e mimetizzarsi in ambienti differenti.


    Conclusione

    Benché sembri che la "supremazia" giapponese sul panorama del fumetto e dell'animazione asiatica sia in declino, iniziando pian piano ad essere affiancata da altri Paesi, come appunto la Corea del Sud, non sarà possibile minimizzare l'importanza che anime e manga hanno avuto sia come semplici strumenti di intrattenimento che come mezzo attraverso il quale la cultura popolare giapponese si è fatta conoscere in tutto il mondo.
    Anche se ai giorni d'oggi ci sono Paesi come la Cina che ancora bannano alcuni anime dalle proprie televisioni, è impossibile fermare i milioni di fan, figli della globalizzazione, ai quali non interessa creare dei vincoli tra due elementi che invece non hanno alcun legame, come un prodotto animato e conflittualità storiche tra i due Paesi. Sicuramente non saranno problemi del genere a fermare una produzione che fino alla metà degli anni novanta contava – tra serie animate, OAV e lungometraggi – circa tremila opere, molte delle quali importate anche all'estero, e che nel 2004 occupava il 60% dell'intera produzione animata trasmessa nel mondo intero.





    Note:

    1. JETRO, Japan Animation Industry Trends
    2. Kazuhisa Fujie, Martin Foster, Neon Genesis Evangelion: The Unofficial Guide, DH Publishing (2004)
    3. Rachel Swatman, Japanese manga One Piece sets record for most printed comic series by one author ever, guinnessworldrecords.com (2015)
    4. One Piece: l'elenco dei record continua con l'anime, AnimeClick.it (2010)


    Fonti:

    - Wendy Siuyi Wong, Globalizing Manga: From Japan to Hong Kong and beyond, Minneapolis: University of Minnesota Press (2006)
    - Martha Cornog, Timothy Perper, Mangatopia: Essays on Manga and Anime in the Modern World (2011)
    - Roberta Ponticiello, Susanna Scrivo, Con gli occhi a mandorla. Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti, Tunué (2005)

    Edited by Yama e bbasta - 27/1/2021, 13:09
     
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