Riassunti Letteratura Italiana

Docente Crupi G.

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    Ghəi Chinəsi

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    1. Antiche tracce dei volgari italiani
    Indovinello Veronese: è il più antico esperimento di rappresentazione grafica in volgare italiano, fu lasciato da uno scrivano su un codice liturgico dell’VIII secolo, probabilmente allo scopo di provare una penna. Si tratta appunto di un indovinello riguardante il lavoro dello scrivano e seppur in latino presenta tratti fonomorfologici di origine volgare.
    Placiti campani: quattro documenti redatti fra il 960 e il 963 contenti anche una sentenza sui diritti del monastero di Montecassino su certe terre. Il Notaio trascrive la parlata locale unendola al latino.
    Iscrizione di San Clemente in Roma: affresco della fine del XI secolo raffigurante una scena della passione di San Clemente, il pittore scrive in latino – con qualche scorrettezza – le battute del santo e in romanesco quelle dei persecutori.
    Motto di Travale: risalente al XII secolo, si tratta del motto di un guardiano malpagato, raccontato da un notaio di Volterra.

    2. I primi centri letterari
    Produzione lirica provenzale: prerogativa trevigiana, piemontese e ligure. Numerosi trovatori si spostarono dalla Provenza richiamati dall’accoglienza dei signori italiani, favorendo così la scrittura in lingua d’oc (allora considerata la lingua della poesia lirica). Questo però limitò la produzione in volgare autoctono, che quindi rimase poco copiosa. Si tratta comunque di un periodo di mutamenti nella poesia lirica, dovuti in particolar modo a tre fattori, i quali inoltre potrebbero attestarne una fioritura anteriore a San Francesco e ai siciliani:
    - la scoperta di una porzione della canzone “Isplendiente stella d’albore” di Giacomino Pugliese, assai precoce;
    - la rilettura della ballata “Eu ò la plu fina druderia”, mettendone in luce la componente siciliana piuttosto che provenzale;
    - il ritrovamento della canzone “Quando eu stava il le tu’ cathene”: (1180-1200) canzone d’amore in 5 stanze di 10 decasillabi, legate da rima finale fissa, in volgare romagnolo, anticipa un atteggiamento psicologico tipico della lirica amorosa duecentesca, dove troviamo l’innamorato in catene che dialoga con Amore.

    Poesia didattica: ne viene conservato un corpus cospicuo nel codice Saibante (ora Hamilton 390). Tra i tanti vi sono anche i “Proverbia”, detti proverbiali a carattere demonico e misogino, l’autore anonimo veneto mette da subito in guardia riguardo le malizie femminili illustrate. Sempre in zona veneta troviamo il “Liber Antichristi”, una volta attribuito a Uguccione da Lodi, che mischia elementi epico-romanzeschi e profetico-escatologici. Un altro tipo di produzione veneta invece è di ispirazione devozionale, come quella di Giacomino da Verona (nato nel 1255/60), con i due sermoni “De Ierusalem celesti” e “De Babilonia civitate infernali” dedicati rispettivamente alla bellezza e alle delizie della città celeste, e agli orrori e ai tormenti della città infernale, allo scopo di evocare forti suggestioni ed emozioni nei fedeli che ne ascoltavano la lettura.

    La poesia lombarda invece trovò presto un maestro di prestigio: Bonvesin Da la Riva (1250 – 1313/15), il quale dominò la scena della poesia settentrionale fino agli inizi del 300; fu autore di carmi latini e di numerosi poemetti in volgare milanese. Alla sua fase giovanile si deve un galateo (“De quinquaginta curialitatibus ad mensam”) ricco di nozioni comportamentali da usare a tavola, di carattere pedagogico attribuibile alla sua attività di maestro di grammatica. Inoltre, caratteristici della sua produzione sono i contrasti tra interlocutori simbolici, come la mosca e la formica (laboriosità), la rosa e la viola (umiltà), i mesi dell’anno, anima e corpo, il peccatore o Satana e la Vergine, oscillando tra temi morali, politici e religiosi. Sembra che la poesia delle zone lombardo-venete nasca dalla volontà di ritornare al cristianesimo evangelico, che si stava diffondendo in quel periodo. Su questa scia, sempre di Bonvesin, notevoli sono “Laudes de Vergine Maria” e “Libro delle Tre Scritture”, quest’ultimo è diviso in 3 parti (che trattano rispettivamente dell’inferno, del racconto della passione e del paradiso). Uguccione da Lodi (1250) è un’altra personalità di rilievo della poesia lombarda, di cui il codice Saibante ci ha tramandato un lungo poemetto detto “Libro”, composto da 702 versi di precetti religiosi e morali, disquisizioni sulla bontà divina e sulla malvagità del mondo; d’intonazione didattica. Simile è la natura del poemetto di Girardo Patecchio (forse concittadino di Uguccione) “Splanamento de li proverbii de Salamone” (esposizione di versi di Salomone), autore a cui si deve anche il primo adattamento del genere enueg provenzale in volgare italiano.

    Anonimo genovese: attivo tra la fine del 200 e l’inizio del 300; ci lascia una delle più vaste raccolte poetiche tra gli autori del settentrione, trasmessaci tramite il codice Molfino e comprende 147 componimenti in volgare e 34 in latino, perlopiù di intonazione moraleggiante e didattica, ma trattando anche argomenti religiosi e storico-politici riguardanti Genova. La metrica è libera, i suoi otto-novernari sono in quartine incrociate (abba) o alternate (abab), a volte anche monorime o dallo schema diverso (aaax), questo fa sì che la sua poesia illustri la massima dell’uomo di bassa condizione che approfitta del prossimo per salire in alto e per questo verrà punito. A racchiudere un po’ tutta l’essenza dell’Anonimo sono le sue 6 quartine dedicate al motivo “de non confidendo in hac vita seu in iuventute” (titolo anche della poesia), monito che un defunto rivolge ad un passante che si ritrova davanti alla sua tomba, dove gli dice di prepararsi alla malattia e alla morte: si apre come un epitaffio e contrappone allegria e vitalità a vecchiaia e malattia, chiudendosi sul motivo della ineluttabilità della morte.

    Verso la fine del XII sec era già sorta un’attività poetica volgare di carattere giullaresco a sfondo morale, i testi che lo attestano sono pochi, ma significativi:
    - “Ritmo di Sant’Alessio”, marche, storia di Sant’Alessio in lasse di otto-novernari;
    - “Ritmo cassinese”, tema della vita attiva e della vita contemplativa in una lingua dai tratti caratteristici dell’area di Montecassino;
    - “Ritmo laurenziano”, il più antico dei 3, un giullare di Volterra si rivolge ossequiosamente al Vescovo di Iesi, lasse monorime di versi a base ottonaria.

    Francesco d’Assisi: (1181/82 – 3 ottobre 1226) scrisse il “Cantico delle creature” intorno al 1225, una poesia con accompagnamento musicale, in volgare (anche se rivela una certa familiarità con il latino della Chiesa) allo scopo di raggiungere un vasto pubblico; per lo stesso motivo l’organizzazione metrico-ritmica è in versi di varia misura. Il tema è quello dell’elogio a Dio, mediante lodi tributate agli elementi del creato (di matrice biblica), affermando che tutto è manifestazione dell’attività creatrice e della bontà divina.

    Iacopone da Todi: (1236 circa - 25 dicembre 1306) sulla scia dei siciliani arriva nella zona toscano-umbra la lirica profana in volgare (ad esempio il perugino Ciuccio di cui ci arrivano ballate dai temi e stile sicilianeggianti). Di Iacopone ci è nota soltanto la sua cospicua raccolta di laude, poiché possibile che egli stesso abbia distrutto le sue poesie precedenti una volta divenuto Fra’ Iacopone e votatosi alla scrittura laudistica. È una figura fondamentale nella lotta dei francescani contro Bonifacio VIII (200), è anche tra i firmatari del Manifesto di Lunghezza (1297, si chiedeva la convocazione del concilio a danno Bonifacio VIII) e a causa di ciò fu anche incarcerato fino alla morte del papa. Di questa vicenda è testimone la laude “O papa Bonifazio, molt’ai iocato al monno”, quasi un’epistola in rima baciata rivolta al pontefice, in cui si mescolano l’invettiva papale alla cortesia implicita di chi sopporta cristianamente. Gli altri componimenti invece sono di genere laudistico, legato ad esecuzione canora, costruiti sul metro della ballata. I temi che ricorrono sono quelli dell’elogio a Cristo, divino amore, castità e povertà, esortazione a guardarsi dal peccato, meditazione della morte, invocazione della misericordia divina. Dal punto di vista della passione religiosa a lui viene attribuito “Stabat mater”, dedicato al pianto della Vergine, in latino, dove l’impianto dialogico incrementa la drammaticità del testo che sullo sfondo della scena evangelica pone in primo piano lo strazio di Maria e il suo dolore di madre. La differenza tra le opere di Iacopone e altri laudari è l’alto tasso di cultura e l’elevato livello stilistico, ricercato e artificioso (quasi vicino a Guittone d’Arezzo).

    Sicilia: prima metà del 200, nel Regno di Sicilia, grazie a Federico II, si andò a sviluppare una fiorente attività letteraria in latino e volgare, a cui la Magna Curia riservò grande cura. Si sviluppa in un ambiente culturale ricco e raffinato, in cui si mescolano culture differenti e disparati interessi. Intorno agli inizi del 1230 compare anche la poesia in volgare, lo sappiamo grazie ai testi di Giacomo da Lentini (la canzone “Ben m’è venuto prima cordoglienza” e il sonetto “Angelica figura e comprobata”) che rimandano ad eventi politico-militari risalenti al 1234/36. La lingua dei rimatori siciliani – che erano di alta estrazione sociale – viene definita “illustre” perché dal lessico molto ricercato, influenzato da latinismi e gallicismi. Il fatto che appartenessero tutti allo stesso ambiente socioculturale, giustifica l’omogeneità delle loro esperienze poetiche; è evidente in particolare sulle tematiche, generalmente riassumibili nell’argomento amoroso nella sua accezione cortese, dove l’amata viene lusingata, celebrata nella sua bellezza; la richiesta d’amore è vista come un rapporto di diritto feudale, la donna come il signore che deve accordare la ricompensa/grazia del vassallo fedele. Sul piano stilistico è chiaro l’interesse dei rimatori di abbellire le loro opere, con dittologie sinonimiche e antitesi, prestando attenzione alle sonorità dei loro componimenti. La metrica si limita a sonetti e canzoni (su modelli di canso provenzale) – ad eccezione di Cielo d’Alcamo e del discordo di Giacomo da Lentini e di Pugliese. Il più attivo dei siciliani è senza dubbio Giacomo da Lentini (anche detto Notaro, muore nel 1250 circa), considerato un maestro dai suoi colleghi e inventore del sonetto (la novità più importante attribuibile alla scuola siciliana). La sua grandezza è resa chiara dal fatto che le sue poesie inaugurano la raccolta di rime del Vaticano. Proprio con questo testo, “Madonna, dir vo voglio”, rielabora la canzone di Folchetto di Marsiglia (“A vos, midontç, voill retrair'en cantan”): un racconto sulle pene d’amore dove l’intento è quello di rendere noto alla dama lo stato di soggezione al sentimento amoroso, dando sfogo al lamento per la passione che strugge il poeta, seppur la donna lo disprezzi. La poesia dei siciliani, e così quella di Giacomo da Lentini, ruota intorno a pochi temi (ripresi dalla lirica cortese occitanica), come quello amoroso, dove l’amante si comporta con discrezione a tutela dell’amata. Lo stile del Notaro evoca immagini in modo estremamente intelligente e tende ad un ornato artificioso (marcato in alcuni casi dalla rima interna sul finire delle due quartine e dalle ripetizioni su figure etimologiche, parallelismi ecc). Altri rimatori siciliani molto importanti furono: Rinaldo d’Aquino (10 canzoni e 1 sonetto); Giacomino Pugliese (6 canzoni e 1 discordo); Mostacci (4 canzoni); Stefano Protonotaro e Guido delle Colonne (entrambi 3 canzoni); Pier delle Vigne (2 canzoni certe, ma possibili altri lavori). Inoltre, a Cielo d’Alcamo spetta il merito di aver scritto l’unico componimento di carattere parodico-comico, concepito come uno scambio di battute tra corteggiatore e una contadina che lo respinge (sul contrasto uomo-donna) e afferma che preferirebbe farsi suora piuttosto che concedersi a lui.

    Toscana: Prato fu uno dei primi centri in cui la prosa siciliana si inserì, tra i poeti principali troviamo il giullare Compagnetto (XIII secolo), a cui vengono attribuite due canzonette dialogate in ottonari, stilisticamente vicino al Notaro. La lingua è volgare. Il gusto sicilianeggiante si spostò presto verso Firenze, ma meglio di loro furono pisani e lucchesi a svilupparla. Nella Toscana occidentale il caposcuola fu senz’altro Bonagiunta Orbicciani (1220 – 1290, Lucca) a cui Dante stesso, nel suo Purgatorio, ne riconoscerà la maestria, paragonabile a Giacomo da Lentini e Guittone. È proprio nei confronti del Notaro che Bonagiunta venne accusato di plagio, infatti il suo sonetto sulla ferita amorosa (“Feruto sono, e chi di me è ferente”) è imitazione della risposta di Giacomo all’Abate di Tivoli. Comunque, nella sua raccolta personale compaiono tutti e 3 i metri siciliani (sonetto, canzone e discordo) e così come nei rimatori anche i suoi versi sono brevi.

    3. La Toscana dopo Montaperti
    In Toscana va ad influenzare la produzione lirica, lo sfondo politico comunale e le lotte prima tra guelfi e ghibellini (nella disputa per il potere temporale schierati a favore del papato e dell’Impero), e poi tra guelfi bianchi e neri. I poeti non erano funzionari di corte come i siciliani, ma impegnati nella gestione della vita comunale (notai, medici, giudici, banchieri). In particolare, dopo la battaglia di Montaperti (1260, vittoria ghibellina), le tematiche si sbilanciarono verso la politica, sull’esempio del sirventese provenzale – la differenza sta nel fatto che prima il poeta si limitava ad appoggiare il suo signore, mentre in ambito comunale era nella viva realtà cittadina. Il più attivo nel campo della lirica toscana fu Guittone d’Arezzo (1230 circa – 21 agosto 1294) [vedi anche cap.6], il quale trattò temi di denuncia. Con la sua canzone “Gente noiosa e villana” infatti rivolge la sua denuncia ai cittadini disonesti, mentre con “Ahi lasso, or è stagione de doler tanto” stigmatizza l’operato dei ghibellini a Firenze che difendevano gli Svevi, o ancora in “O dolce terra aretina” rivolge la sua rabbia ai concittadini folli e crudeli. Guittone ha un ruolo fondamentale anche nell’ingresso e nella diffusione della tematica religiosa e spirituale (dovuto forse alla produzione laudistica) poiché, dopo la sua conversione, rivolse alcune delle sue rime a Cristo, alla Vergine Maria e anche a San Domenico e San Francesco.
    Comunque, la produzione siciliana giunta fino ai rimatori toscani fu influenzata dagli usi linguistici dei copisti che aveva portato ad una perdita nella resa finale delle opere; da ciò deriva la polemica messa in atto da Dante nel suo “De vulgari eloquentia” in cui rimproverava Guittone, Bonagiunta, Brunetto Latini e altri, di aver usato una lingua e uno stile municipali – andavano a perdersi molti tratti dialettali. Se la prima generazione di poeti toscani imitava i siciliani, la seconda portò novità e modifiche rilevanti nel canone metrico della lirica; si sperimenta, nascono canzoni con stanze di grande respiro, che fanno spazio all’endecasillabo. Chiaro Davanzanti prova ad introdurre variazioni tra una stanza e l’atra nella stessa canzone; Noffo di Bonaguida infittisce l’opera di rime irrelate; da Guittone diventa abituale l’uso di un congedo. Dopo Bonagiunta sparisce inoltre il discordo (genere di origine provenzale costituito da stanze di lunghezza variabile), mentre viene introdotta la ballata. Tornando a Guittone, egli fu il primo a costruire un vero e proprio libro in versi (ricostruito attraverso il Laurenziano Rediano 9, incompiuto) il “Canzoniere”. Questo si apre con un vero e proprio proemio, con la canzone “Ora parrà s’eo saverò cantare”, una prima serie di 24 canzoni morali, seguite da altrettante canzoni d’amore; chiudono i sonetti morali, seguiti da quelli erotici. La doppia bipartizione di canzoni e sonetti va a rappresentare la frattura nella sua vita, prima e dopo la conversione. Non si fa solo itinerario spirituale, ma anche evoluzione stilistica (nel passaggio dalla canzone isometrica e amorosa sicilianeggiante, alla canzone in endecasillabi e settenari a contenuto dottrinale). Marchio della sua poesia fu la tendenza a trasformarla in “ragionamento”, procedendo per antitesi o per ipotesi. Egli dichiara di volersi mettere alla prova, prendendo le distanze dalla tradizione che sosteneva l’impossibilità a far poesia senza essere innamorati; lui invece la condanna poiché allontana da Dio ed è quindi dalla parte del demonio. Guittone esportò nel resto della Toscana il modello psicologico, che equivaleva ad una risemantizzazione su base religiosa della lirica cortese, e quello stilistico, caratterizzato da una grande abilità tecnica (senza il periodo guittoniano sarebbe stato impossibile l’affermarsi dello stilnovismo). A Pisa infatti lasciò le sue lettere (una in prosa e l’altra in versi) a Marzucco degli Scornigiani, una sorta di epistola metrica rivolta al Conte Ugolino e al nipote Nino Visconti (dalla canzone “Magni baron’ certo e regi quasi”), due missive in prosa per Frate Manente con il quale Guittone era entrato in polemica.
    A Firenze, i rimatori della vecchia scuola (dallo stile sicilianeggiante), si affiancarono quelli che vicini allo stile di Guittone e quelli di stampo aretino; tra questi la figura centrale è Monte Andrea, riconosciuto dallo stesso Guittone.
    A Brunetto Latini (1200 – 1294/95) [vedi anche cap.6] invece si deve il merito di aver introdotto l’epistola in versi a Firenze, attraverso il “Favolello” che inviò a Rustico Filippi, riguardo la vera e falsa amicizia, in distici di settenari a rima baciata e dal metro tipico del poemetto didattico. Brunetto usa lo stesso metro per il suo “Tesoretto”, incompiuto seppur composto da quasi tremila versi. Questo doveva essere una narrazione enciclopedica sotto forma di “visione”. I primi 112 versi, in forma di epistole, raccontano di un ambasciatore del comune di Firenze inviato al re di Spagna; di ritorno dal suo viaggio, incontra uno studente bolognese che lo informa della sconfitta guelfa; da qui un altro viaggio lo conduce di fronte all’allegoria della natura. Brunetto non solo prelude alla serie di insegnamenti che la Natura impartisce (Genesi, filosofia naturale ecc.) ma prefigura anche l’attacco dell’Inferno di Dante. Il viaggio continua tra le personificazioni delle Virtù, per poi interrompersi con un accenno alle sette arti liberali. I versi comunque racchiudono i precetti più vari (morali, di comportamento) che riflettono l’etica comunale.
    Sul metro del “Tesoretto” troviamo “Detto d’amore”, una sorta di compendio del “Roman de la Rose”, copiato insieme ad una parafrasi di “Rose” (o “Fiore”), attribuibile a Dante. Il testo si avvicina alla poesia francese, ma il modello rimane comunque del genere della corona di sonetti (il sonetto veniva impiegato come strofa narrativa, dallo stile oscillante tra la lirica cortese e il gusto realistico). Importante è il dialogo tra l’Amore e l’amante (nel finale), con il primo che mette in guardia il secondo circa la sua forza, garantendo comunque una ricompensa al suo fedele, cioè il soddisfacimento del suo desiderio. Questo è stampo cortese, ma nell’interezza dell’opera l’espressività è enfatizzata dall’uso di gallicismi.

    4. La scoperta dello “stil novo”
    Con “stil novo” si indica lo stile poetico che va a svilupparsi nella Toscana del XIII secolo (affermatosi tra il 1280 e il 1310) dalla generazione di rimatori cresciuta sotto l’influenza di Guittone, ma da spinte esterne (intellettuali come Brunetto Latini, erano ancora ancorati a stili arcaici). A Bologna, Guido Guinizzelli (1237-1276) riesce a liberarsi dal condizionamento guittoniano, della prosa cortese e sicilianeggiante. Di lui sappiamo che era un ghibellino, che fu bandito nel 1274 e morì prima del 14 novembre 1276. Guittone non attirò solo critiche positive, Bonagiunta Orbicciani lo riprende in “Voi ch’avete mutata la maniera” per aver cambiato i modi di comporre lirica d’amore e per l’uso di materiali della letteratura dottrinale, di stampo latino. Una tessitura dottrinale è evidente nell’opera più celebre di Guinizzelli: “Al cor gentil rempaira sempre amore”, una canzone di struttura rigida (/schematica) che poneva la nobiltà di cuore a fondamento del sentimento d’amore. Numerose sono le novità per quanto riguarda la filosofia amorosa; Guinizzelli veicola questo suo messaggio riguardo la nobiltà dello spirito attraverso varie similitudini:
    - L’amore che si annida nel cuore nobile come l’uccello nei boschi;
    - Paragone tra l’amata e le stelle (ci si innamora così come si rimane affascinati dallo splendore di una stella);
    - Similitudine tra l’amore che estingue il male come l’acqua fredda sul fuoco (a ribadire l’elevazione del cuore amoroso);
    - L’amore fissa la propria dimora nel cuore nobile come in un luogo a lui appropriato (come il diamante in una miniera di ferro).
    Nello stesso componimento inserisce anche la figura della donna-angelo (come fecero anche il Notaro e Guittone) la quale assume nuovi connotati: ha funzione di proiettare il discorso lirico verso altezze paradisiache e viene riempita di implicazioni ideologiche. Nel finale l’anima dell’innamorato, si giustifica davanti a Dio – a cui deve rendere conto per aver dato all’amore attributi divini – perché ingannato dalle fattezze angeliche della donna. A Firenze un certo Ser Pace (autore perlopiù di sonetti di stampo arcaico) nella sua ballata “S’eo son gioioso amante senza pare” dichiara di voler cantare in una nuova maniera, dai tratti appunto guinizzelliani, e sostiene che Dio ha creato la donna priva di peccato per conferirle caratteristiche angeliche. *3

    Sul finire del 200 viene a galla il problema del coniugare l’esperienza della lirica d’amore con la società comunale e la spiritualità cristiana (già avvertita da Guittone). Nasce la generazione – di guittoniani – che spiritualizza l’amore (in Toscana legittimata dal “De amore” di Andrea Cappellano), superamento della mentalità secondo la quale il piacere carnale era lo scopo ultimo delle attenzioni dell’amante – un peccato capitale se consumato fuori dalla relazione coniugale. Dante invece di modernizzare uno modo di scrivere già esistente, ne instaura uno nuovo, con lo stile della lode (lo spiega nel “Vita nova”): tratteggiando un nuovo tipo psicologico dell’innamorato, la cui unica ricompensa a cui aspira è l’essere elogiato dalla propria donna. Da qui si sviluppa lo Stil Novo, senza ovviamente escludere il possibile legame con la situazione politica di Firenze. La nozione di “dolce stil novo” proviene da un passo del “Purgatorio” (Canto XXIV) nel quale Dante incontra Bonagiunta Orbicciani che con queste esatte parole definisce la canzone dantesca “Donne ch'avete intelletto d'amore”, distinguendola dalla produzione precedente poiché svincolata dall’eccessivo formalismo (dal “nodo” che i suoi predecessori non seppero sciogliere) e per il modo con cui penetra interiormente (luminoso e semplice). La novità stava nel superare il problema dell’immoralità della lirica erotica, a differenza di chi prima di loro ci aveva già provato, trasformando Amore in un principio trascendentale, mistico, e il poeta in un semplice trascrittore. Inoltre, l’aggettivo “dolce” va a sottolineare la ricerca di una sintassi lineare e di un lessico privo di asprezza (se ne parla nel “De vulgari eloquentia”), ricercando una maggiore armonia, evitando di sovraccaricare i testi di abbellimenti retorici, provenzalismi. Non si può parlare di “scuola”, ma i poeti che vi si avvicinarono, attirati dalle nuove tendenze, sentivano la necessità di identificarsi in un gruppo. Tra questi: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dante stesso. L’immagine della donna-angelo (idea guida della lode) passa dal piano metaforico a quello metafisico – usando le parole di Roncaglia – assumendo da funzione di Amata a messaggera divina, divenendo il tramite fra poeta e Amore; in questo modo si spiega l’uso del saluto salvifico della donna. Dal punto di vista lessicale certe voci diventano veri e propri tecnicismi (umile, mente, spiriti, oppure dolce, soave, gentile, angelico, e ancora intelletto, figura, immagine). Per quanto riguarda la metrica invece, il sonetto viene adottato in forma doppia, guittoniano; iniziano ad incrociare rime sulla fronte (abbaabba), mentre le rime alternate vanno estinguendosi; nella canzone non si usa più l’apertura con un settenario e nel corpo della stanza si fa maggior uso dell’endecasillabo piuttosto che dei versi brevi; viene largamente utilizzata la ballata, talvolta in collaborazione con dei musici. Sul piano tematico verge quasi esclusivamente su quello d’amore, a cui si intrecciano l’amicizia – perché costituito da una poetica di gruppo. Lo sviluppo dello Stil Novo si ha soprattutto a Firenze e, in linea di massima, a Pistoia, e non proseguì oltre il 1300. Come sappiamo Dante aveva già abbandonato questo stile nella metà del 1290, così come quella di Lapo Gianni, Cavalcanti morì in esilio nel 1300 e anche Dino Frescobaldi – continuatore dello stile – venne a mancare dopo una decina d’anni (1316).
    Guido Cavalcanti (muore il 29 agosto 1300), nato probabilmente nella prima metà del 1250, di famiglia nobile, fu la personalità di maggior spicco dello Stil Novo, dopo Dante. Si fece conoscere sulla scia dei siciliani e di Bonagiunta, ne abbiamo prova grazie alla sua celebre ballata composta per la festa di Calendimaggio (“Fresca rosa novella”); l’apertura prelude ad un invito all’amore dal sapore primaverile – che ricorda sia Cielo d’Alcamo (“Rosa fresca aulentissima”) sia Bonagiunta (“Quando apar l’aulente fiore”) – ma il fatto che le connessioni tra una stanza e l’altra avvengano attraverso la ripresa di una parola, non lo rende compatibile con lo Stil Novo. Sappiamo inoltre che questa ballata è dedicata a Dante, del quale Guido fu il primo amico. In questo è evidente l’insegnamento di Guinizzelli (in particolare con il sonetto “I’ vogl(io) del ver la mia donna laudare” *2) per: le rime in -are e -ute; le rimanti (pare, virtute, salute); l’utilizzo di âre; il tema dell’apparizione salvifica dell’amata che non è altro che uno sviluppo dell’elogio alla donna. Diversamente dalla tendenza stilovistica, la sua teoria dell’amore come passione dell’anima sensitiva che sovverte le facoltà dell’intelletto, sembra più appartenere alla filosofia averroistica; accompagnato anche da un lessico proveniente dalla filosofia naturale. Ad esempio, basa molti dei suoi sonetti – come “Deh, spiriti miei, quando mi vedete e Pegli occhi fere un spirito sottile” – sull’esistenza di cosiddetti “spiriti”, rappresentazione di sentimenti e dei processi vitali dell’animo. *4

    Dante: probabilmente di formazione poetica gallicizzante e guittoniana, se fossero realmente suoi i sonetti parafrasi del “Roman de la Rose”, seppur in parte molto realistico – coerente inoltre con alcune sue rime giovanili. È probabilmente grazie all’inizio dell’amicizia con Guido, e con gli altri rimatori che entrarono a far parte del loro gruppo, che Dante sembra superare questa fase. In “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, un sonetto rivolto a Cavalcanti e Lapo Gianni, immagina un viaggio in mare tra amici che si beano della reciproca compagnia, ma sperano che “l’incantatore” – lo stesso che li trasporta su quel vascello – possa rendere quel tempo ancor più piacevole portando anche le loro amate (Vanna, Lagia e la terza è probabilmente la prima di cui Dante parla in “Vita Nova”). L’amicizia tra Dante e Cavalcanti durò comunque poco, a causa della discordanza tra le loro filosofie e morali: Guido è un filosofo naturale, ha una visione pessimistica e irrazionale dell’amore, legata alla dimensione fisica, libera da influenze spirituali e religiose; Dante è convinto che l’amore sia strumento di elevazione etica e morale, che scatena un risveglio spirituale. “Vita Nova” nasce dall’esigenza di riunire pezzi della propria produzione lirica raccordati in prose esplicative e narrative su modello delle ragioni, che nei canzonieri provenzali accompagnavano i testi poetici. Il libro seguiva le fasi dell’amore per Beatrice, ripercorrendo i momenti principali dell’evoluzione della lirica (dal 1283 al 1293). Primo componimento scritto nella nuova maniera è la canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”, ma è con la morte di Beatrice che avviene il cambiamento definitivo verso un amore spirituale, tanto che l’opera si chiude con la promessa di un’opera maggiore a lei dedicata. In concomitanza con la stesura del “Vita Nova” inizia ad avvicinarsi alle canzoni dottrinali e allegoriche, alcune poi commentate nel “Convivio”.
    Cino da Pistoia, coetaneo di Dante e come lui inizialmente influenzato da Cavalcanti, fu quello più a lungo fedele alla poetica stilnovista (aggregatosi al gruppo nel “De vulgari eloquentia”). Fedele a temi amorosi e disinteressato a discorsi filosofici; il tono è talvolta elegiaco (motivi della confessione e dello sfogo sentimentale) e molti furono i motivi tipici dello stilnovismo (la donna-angelo in “Angel di Deo simiglia in ciascun atto”; il sonetto “Una gentil piacevol giovinella”; l’attesa della morte “Degno son io di morte”). Il suo testo che ebbe maggior successo fu la canzone “La dolce vista e ‘l bel guardo soave”, dove Cino rielabora il tema dell’amor de lonh (provenzale, cioè del lamento per la lontananza della propria donna), addolorato per la partenza dell’amata e per aver perso la visione beatificante del suo aspetto e del suo sguardo. Inoltre, nella sua canzone “Su per la costa, Amor, de l’alto monte” piange la morte di Dante.

    5. La poesia comico-realista
    Nel 200, in contrapposizione alla poesia illustre troviamo quella umile, legata a temi vitalistici e paradossali, dissacranti (tipo i temi goliardici medievali), dove ad esempio venivano esaltati i vizi (come bere e mangiare), la frequentazione di meretrici e il gioco d’azzardo. Questo accade nel sonetto di Cecco Angiolieri, “Tre cose solamente m’ènno in grado”, che comincia proprio con l’elencare queste tre cose che gli danno piacere (“la donna, la taverna e ‘l dado” - il piacere sessuale, il vino e il gioco) e racchiude lo sfogo di un figlio nei confronti dell’avarizia del padre poiché non possedendo soldi non può praticare i suoi vizi. La sirma si apre infatti con il malaugurio che il figlio fa al padre e continua con un’invettiva verso chi lo priva del suo denaro. L’argomento stesso rimanda all’ambito studentesco (motivo del bisogno di denaro, che ritorna anche in “In questo mondo chi non ha moneta”) e ai temi goliardici e anche il linguaggio utilizzato da Cecco è previsto nella poesia mediolatina. La scelta lessicale si restringe al quotidiano e talora all’osceno, con morfologia e sintassi appartenenti alla lingua parlata. Cominciano ad essere usate voci dell’uso domestico, che indicano manifestazioni corporee, inserendo parti del corpo ignorate dalla lirica aulica (e quelle che invece vengono usate possono essere sostituite da termini appartenenti alla sfera zoologica o popolari, come “ceffo”, “becco” e “gozzo”). Cecco fa anche del tema amoroso una parodia, con corteggiamento dai tratti plebei che fa alla sua amata Becchina. Uno dei sonetti più celebri e comici dell’autore è “S’i’ fosse foco” mette in mostra una serie di desideri malvagi ed empi (come l’essere Papa per mettere nei guai i cristiani o imperatore per far decapitare tutti) per poi finire a parlare dello stesso Cecco che tiene per sé le donne belle e giovani e lasciare agli altri quelle “zoppe” e vecchie. Il testo ha un andamento anaforico e rientra negli schemi del realismo borghese. Tra gli autori che rientrano in questi stessi schemi troviamo Folgóre da San Gimignano, il quale compose due corone di sonetti sui giorni della settimana e ai mesi, in cui delinea un’ideale di vita piacevole e confortevole. A questa rispose Cenne da Arezzo, però su noie e difficoltà. Anche Dante fece ricorso ai modi di far poesia di Cecco ed è certo che tra i due ci fu, per molto tempo, un legame d’amicizia, e come lui Guinizzelli e Cavalcanti.

    6. La prosa del Duecento
    In coincidenza con uno sviluppo della vita politica amministrativa e burocratica, si va formando una produzione /dottrina (ars dictandi) utile alla composizione di scritti per esecuzione sia oratoria che epistolare.
    Bologna è un centro particolarmente attivo, soprattutto: Boncompagno da Signa, con il suo trattato di retorica epistolografica “Boncompagnus”; Guido Faba che tenta il primo esperimento dell’ars dictandi in volgare in “Parlmenta et epistole”, una raccolta di esempi e modelli oratori ed epistolari – su come rispondere ad una richiesta di denaro, porsi per riavere indietro qualcosa prestato, raccomandarsi a un nuovo vescovo ecc. – in bolognese colto, tra cui anche 3 versioni in latino, di complessità decrescente.
    Ad Arezzo Guittone tenta l’esperimento più significativo dell’epistolografia volgare del secolo con il suo “Lettere”: i caratteri sono quelli del sermone (mezzo d’insegnamento religioso-morale) dove però si uniscono il moralismo cristiano, l’energia laica e quella mondana. Da intellettuale guelfo (come Brunetto Latini) chiede alla propria parte di assumere i valori del bene comune, unificanti, per dirigere la comunità cittadina. Lo stile è elevato e ricercato; la prosa ha un andamento ritmico (che talvolta dà luogo a versi), fa uso del cursus, rispetta le norme dell’ars dictandi sulla partizione dell’epistola, e impiega figure retoriche e massime; procede per forti opposizioni (odio-amore, belva uomo, deserto-città ecc.).
    La formazione dell’antica prosa italiana è connessa ad una vasta attività di traduzione di testi latini in volgare, inizialmente incentrata solamente su testi di storiografi cristiani e scritture morali del Medioevo. Particolarmente importanti i volgarizzamenti di Cicerone fatti da Brunetto Latini. La “Rettorica” da lui scritta, vuole insegnare l’arte del discorso, ma è anche un modello di prosa volgare elevata e raffinata, sulla base di un confronto continuo con il latino. Brunetto crede nell’utilità della retorica come strumento per governare, ricercando il consenso del popolo, lo considera perciò alla stregua di una scienza. Per lui non basta saper pronunciare bene le parole o saper costruire secondo certe norme di eleganza, ma è necessario centrare il discorso. Questo porta alla base di una nuova enciclopedia fatta di nozioni della cultura classica adattate alle esigenze del cittadino laico, che Brunetto elabora nel suo “Tesor”: scritto in fancese, sia perché si trovava in esilio in Francia, sia per sfruttare la diffusione e il prestigio di tale lingua – presto tradotto in fiorentino; diviso in 3 libri:
    1) “Origine di tutte le cose”; nozioni fondamentali (Dio, anima) precedono una narrazione storica da Adamo ai tempi di Brunetto; trattazione di fisica, astronomia e geografia; bestiario.
    2) Compendio dell’etica aristotelica; trattato sui vizi e sulle virtù.
    3) Dedicato alla retorica e al governo (rivolto ai doveri del “signore”, cioè il podestà comunale).

    Restoro d’Arezzo: nel 1282 completa la “Composizione del mondo”, un trattato di divulgazione scientifico-naturalistico, il quale ricostruisce il quadro del mondo fisico (composizione) e il reticolo delle cause che lo muovono (cascioni), sulle basi di Aristotele, Tolomeo e della scienza araba. L’opera si presenta come un importante documento che riporta quella che era la visione duecentesca del cosmo, in un intreccio di razionalismo e simbolismo – la prosa infatti non segue le regole artistiche, risultando anche piuttosto monotona, ma le argomentazioni. Diviso in 2 libri:
    1) Diviso in 24 capitoli, descrive forma e disposizione del mondo (cerchi celesti, zodiaco, pianeti, firmamento);
    2) Fa 8 distinzioni divise in capitoli e si occupa delle cagioni che spiegano il cosmo, sull’effetto dei pianeti, degli elementi, dei moti celesti, del rapporto fra terra e acqua, freddo e caldo, le generazione/nascita di animali, piante e minerali, sui fenomeni atmosferici; verso la fine dell’opera si chiede come possa inserirsi l’amore all’interno di questo sistema e tenta di spiegarlo razionalmente, come una varietà della natura e poiché è proprio la diversità ad essere una ricchezza e qualcosa di prediletto, spesso ad innamorarsi sono un uomo ed una donna che non hanno nulla in comune.
    Restoro tratta il tema dell’amore secondo i motivi della tradizione letteraria cortese, seppure con divertimento, come l’amore “cieco” o come faccia cambiare le persone, sviluppandoli però in diversa direzione.

    Con l’intensificarsi dei rapporti commerciali e culturali con l’Oriente, aumenta anche la produzione di scritti legati al tema del viaggio; “Il Milione” ne è un esempio. Dettato nel 1298 da Marco Polo ad un compagno di cella a Genova, ha infatti due autori: Polo (mercante, funzionario e ambasciatore) e Rustichello da Pisa (scrittore e romanziere, particolarmente conosciuto anche per i suoi romanzi arturiani). Scritto in un francese ricco di italianismi (franco-italiano o franco-veneto), la copia originale non ci è pervenuta, ma sappiamo che il titolo è “Le divisament dou monde” (La descrizione del mondo), mentre quello che ha oggi deriva dal soprannome della famiglia di Marco (cioè “Emilione”) e appare per la prima volta nella rubrica della versione fiorentina del 300, intesa come “il libro di Milione”. L’opera comincia con un proemio e un breve prologo sulle vicende di Polo nel 1250 e si svolge secondo il suo itinerario: Siria – Persia – Korassan – Gobi – Turchestan – Mongolia – Cambaluc (Pechino), segue il ritorno via mare toccando India e Persia. È ricco di descrizioni geografiche ed etnografiche, narrazioni storiche e pseudostoriche, componendo il quadro di un mondo diverso dal nostro, al cui centro c’è la figura dell’imperatore Qubilai. Al suo interno avviene un intreccio tra reale e fantastico (realistico e fiabesco), considerato infatti il “libro delle meraviglie del mondo”.

    Narrativa: tra il XII e il XIII secolo si realizzano forme di narrazione breve, gli exempla, attinti da storia sacra e profana, leggende e vite di santi, si presentano come fatti realmente accaduti; sono diretti ad un pubblico di minor levatura culturale; la carica è didattico-morale, più o meno efficace a seconda della tecnica narrativa. Un esempio è il “Disciplina Clericalis” dell’ebreo spagnolo convertito Pietro Alfonsi; miscellanea di exempla narrativi (soprattutto di origine orientale), con sentenze per insegnare l’arte del vivere; originariamente in latino fu tradotto in varie lingue, sia in prosa che versi, e tra questi spicca una versione in volgare toscano dove viene data più importanza alla parte novellistica che a quella didattica. E proprio in Toscana che la “raccolta di exempla” diviene “libro di novelle”. Tra questi: “Fiori e vita di filosafi ed altri savi ed imperadori”, una raccolta di fatti e detti (“fiori” sta per “sentenza scelte”) attribuiti ad illustri personaggi della storia, e non altro che un volgarizzamento del latino “Flores historiarum” di Adamo di Clermont (a sua volta tratto da “Speculum historiale” di Vincenzo di Beauvias). Questi ebbero un forte influsso sulle raccolte di novelle che seguirono, come lo stesso “Novellino”. “Novellino” è un’etichetta applicata ad un testo a cui difficilmente si può dare una definizione, ad esempio, prendendo in considerazione il “Libro di novelle et di bel parlare gientile” (trascritto da due diversi copisti del 300, contiene 156 fra novelle, sentenze, questioni e brevi narrazioni di altro tipo) “Ciento novelle antike” (una collezione post-boccacciana) si può notare che in comune hanno: il fatto di essere un cospicuo blocco di novelle; un prologo su natura e finalità dell’opera; presuppongono una raccolta allestita della fine del 200 di autori anonimi, a Firenze. Sembra giusto però definire che il “Novellino” sia basato su novelle in comune con le due raccolte prima citate. L’autore, ovviamente anonimo (fiorentino, probabilmente ghibellino, laico), chiarisce da subito lo schema sociologico dell’opera, che si fa traduzione dell’aneddoto cortese orale, in una forma scritta fatta anche per la borghesia. A tal proposito le novelle furono selezionale e riscritte. Vari sono gli ambiti a cui (direttamente e indirettamente) ha attinto: storia sacra (David e Salomone), antica, biografie (Talete e Diogene) e vidas trobadoriche, mitologia (Narciso e Ercole), letteratura morale, racconti orientali, cronache medievali (Carlo Magno), exempla, lais, romanzi (Merlino e Tristano), aneddoti sia di corte che cittadini, con protagonisti più o meno celebri (Federico di Svevia, Enrico d’Inghilterra, Carlo d’Angiò, tra cui anche uomini di studio, di corte e di municipio). Il criterio tematico è indicato nel prologo: atti di virtù cavalleresca – tra cui spicca la liberalità; manifestazioni d’intelligenza – solitamente in forma di “motto” (la “bella sentenza” dello Schiavo di Bari); vicende d’amore cortese o sensuale; non mancano racconti centrati su vizi, cupidigia, stoltezza e crudeltà. Vari sono anche i modelli: exemplum brevissimi; novelle brevi; sequenze in episodi; organismi complessi, con discorsi diretti e molto descrittivi. Nei testi più lunghi la costruzione è semplice: si fa ricorso alla paratassi e uso di periodi brevi.

    Romanzo: è un genere letterario di carattere narrativo, destinato esclusivamente alla lettura, praticato in Italia tra il XII e il XIII secolo, sulla base di modelli francesi (da cui ne deriva il nome, fr. “romanz”). Tra i maggiori esempi il latino abbiamo “Historia destructionis Troie” di Guido delle Colonne, che rielabora il “Roman de Troie” con una sfumatura misogina e antieroitica. In prosa toscana abbiamo il “Tristano Riccardiano”, ripreso dal “Tristan en prose” e la “Tavola Ritonda” una raccolta di varie fonti arturiane. Rustichello da Pisa scrive un romanzo in francese, che ripete le avventure di Girone il Cortese. Sempre in francese ma con influenze di volgare italiano abbiamo “Huon d’Auvergne”, mischiato con il veneto.

    Cronisti: Durante il 200, il perno della vita comunale si sposta dalla vecchia aristocrazia sui ceti urbani attivi nel commercio, nella finanza e nell’industria. I gruppi dirigenti sono divisi dal conflitto tra Chiera e Impero, portando alla creazione di guelfi e ghibellini. I cronisti inserirono la violenza di questi scontri e di questa politica all’interno dei loro scritti, tendendo verso l’uso del volgare. La “Cronica” (1221-1288/89) di Salimbene da Parma, di cui ci è giunta solo una copia mutilata, riferisce avvenimenti avvenuti tra il 1168 e il 1287 nell’Italia centro-settentrionale, legati agli scontri fra Chiesa e Impero. Il pregio dell’opera risiede nella sua qualità di libro di ricordi, rievoca infatti episodi (auto)biografici, aneddoti curiosi e novelline – nelle quale Salimbene da sfogo alle sue doti di narratore. La prosa, arguta e flessibile, dimostra la vitalità che può assumere il latino se non utilizzato in modo piatto e scolastico (latino ecclesiastico ed elementi in volgare). I capitoli più famosi sono quelli dedicati a Federico II – conosciuto personalmente da Salimbene – che riportano racconti sulle sue bizzarrie e testimonianze di grande interesse. In particolare, il paragrafo sull’epicureismo dell’imperatore è di sussidio all’interpretazione del “X Canto” – “Inferno” di Dante (termine attribuito alla miscredenza nell’immortalità dell’anima e suggerisce la pena poi inflitta a quei peccatori). Della vita comunale fiorentina sappiamo poiché Dante, nella “Commedia”, ci trasmette ciò che doveva essere parte della tradizione orale e scritta dell’epoca, ma anche un’anonima, ma affidabile, compilazione annalistica, “Cronica fiorentina”, ci trasmette notizie su personaggi del tempo (come la morte di Buondelmonti). Successiva è la “Cronica” di Dino Compagni. L’opera nasce dall’impegno nella vita politica fiorentina, in particolare: la partecipazione al movimento antimagnatizio di Giano della Bella; la presenza al priorato (governo della città) nei momenti cruciali del conflitto tra Guelfi neri e bianchi. Dino non fa propriamente parte dei Bianchi, infatti a differenza di Dante non è costretto ad andare in esilio e neanche condannato a morte, ma è tagliato fuori dalla politica. Già prima dell’arrivo di Enrico VII di Lussemburgo (prima del 1306), Dino aveva cominciato a scrivere la “Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi”, un trattato a carattere storiografico in volgare, in cui condanna animosamente i Neri (gli uomini che hanno operato il male) e analizza le debolezze dei Bianchi, poiché non hanno saputo opporsi al male. L’intonazione è quella di una dichiarazione di fede nella Provvidenza e nella giustizia divina, in prospettiva alla venuta di Enrico. Il suo interesse etico-politico lo porta a scegliere la forma della monografia storica di tipo sallustiano. Comincia con un proemio che ne chiarisce lo scopo e lo spirito, e prosegue con 3 libri:
    1) Narra, come antefatto, il principio della divisione di Guelfi e Ghibellini (1216) e i fatti dal 1280 al 1301;
    2) Narra la crisi, la cacciata dei Bianchi e i tentativi di rientrare a Firenze;
    3) Segue 2 filoni narrativi:
    - i fatti dei fiorentini in patria (Neri) e fuori (Bianchi), dal dicembre 1303 all’ottobre 1308;
    - i fatti di Enrico fino alla sua incoronazione.
    Gli ultimi capitoli descrivono lo stato di Firenze la vigilia dell’arrivo di Enrico.
    Ebbe una diffusione limitata, vista la scomparsa dell’imperatore che tolse attualità alla prospettiva politica del libro, privo di una finale revisione letteraria, non reso pubblico. A noi arriva una copia del 400 che quindi presenta tratti linguistici più moderni; restano però i moduli sintattici arcaici (paratassi, proposizioni brevi in sequenza asindetica o polisindetica, forme del parlato, discorso diretto per riflessioni/pensieri, costruzioni miste discorso indiretto/diretto). Nell’opera fa una (auto)critica dell’azione politica, arricchita dalla sua partecipazione sentimentale agli eventi. Il risultato raggiunto da Compagni non ha pari nella prosa del 200, allo stesso tempo offre un prezioso strumento di comparazione con quanto scritto da Dante nella “Commedia”.

    Lirica teologico-filosofica e spirituale: Nel 200 tanti sono gli esperimenti in volgare, seppur il latino sia ancora largamente utilizzato. Una delle figure di maggior rilievo fu Tommaso d’Aquino, maestro domenicano, autore di una ciclopica biblioteca teologico-filosofica da cui spiccano 2 summae: la “Contra Gentiles” e “Theologica” (incompiuta). Tommaso rielabora l’intero corpo dottrinale cristiano nella sua parte filosofica, sulla base del pensiero aristotelico (riscoperto in quel periodo). Secondo lui, le verità di fede superano le capacità della ragione umana, ma non entra in contrasto con i suoi principi, poiché anche questi vengono da Dio; i principi razionali non sono altro che la filosofia libera dalle interpretazioni arabe (come quelle di Avicenna e Averroè). Il pensiero di Tommaso d’Aquino fu a lungo stigmatizzato poiché deviava dagli insegnamenti dei Padri della Chiesa. Il massimo tra gli scrittori francescani fu Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274) di cui conosciuto è soprattutto “Itinerarium mentis in Deum”, trattatello teologico-mistico, che si sviluppa come una specie di viaggio che porta l’anima a conoscere Dio, passando prima per la consapevolezza della realtà umana (prima parte, conosce Dio nelle creature in cui Egli risplende) e della propria interiorità (seconda parte); nella terza parte l’uomo contempla sopra di sé la luce della verità rivelata, Dio; dopo di ciò alla mente non resta che oltrepassare sé stessa e riversarsi in Dio. Notevole è anche la produzione, minore, dedicato all’Alter Christus: “Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate”, aninimo; “Vita prima” e “Vita secunda” di Tommaso da Celano; “Legenda major” di Bonaventura, sulla quale si basa il ciclo di affreschi francescani nella basilica superiore di Assisi.

    7. Dante Alighieri: Vita nova, rime della maturità e tratti
    Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio 1265, in una famiglia agiata, guelfa; partecipò alla battaglia di Campaldino e alla presa di Caprona (1289), fu attivo nella vita politica del comune fin da 1296, membro del collegio dei Priori (tra giugno e agosto 1300) e cercò di placare le lotte tra Bianchi e Neri. Si avvicinò ai Bianchi prima che i Neri presero possesso di Firenze e per questo fu costretto all’esilio non rientrando mai più in patria. Si stabilì forse a Treviso, in Lunigiana, alla corte dei Malaspina (1306), presso i conti Guidi, a Lucca e in fine a Ravenna dove morì il 13 settembre 1321. La “Vita Nova” (1293-95) è la sua prima opera organica, costituita da parti in prosa e altre in versi (prosimetro). Potrebbe sembrare un canzoniere, una raccolta di rime collegate da brani in prosa scritti in un secondo tempo, i quali spiegano le circostanze in cui sono nate le poesie, oppure commentano (la critica lo ha messo a confronto con alcuni canzonieri di lirica provenzale in cui le poesie sono accompagnati da brani sulle ragioni, la composizione dei testi e sulle vite dei trovatori). È anche autobiografico, seppur molto selettivo nel rivelare l’essenza della propria esistenza: l’amore per Beatrice. Il titolo ha un duplice significato:
    - vita giovanile, comincia infatti con il primo incontro con Beatrice all’età di 9 anni;
    - vita rinnovata (senso spirituale), rigenerata dall’amore, suggerendo un legame tra esperienza amorosa (poetica) e fede.
    L’amore per Beatrice non è solo successione di fatti, ma è anche uno sviluppo spirituale e un percorso di purificazione, esperienza di grazia divina. Questo percorso è espresso anche dalle rime dell’opera, le più antiche appartengono ad una fase in cui l’amore è legato alla passione (vicino a Cavalcanti, a cui è dedicato); a partire da “Donne ch’avete intelletto d’amore” hanno inizio le nuove rime (Dante stesso considera questo come il punto d’inizio della sua nuova poetica), che esprimono una concezione dell’amore più matura, come elevazione spirituale, e la poesia si fa lode (preghiera). Dante presenta la sua opera come ispirata a quella verità che si conserva nel “libro della memoria”: ricorda quando incontrò Beatrice per la prima volta, di cui ancora non conosceva il nome e da lui definita “gloriosa donna”; se ne innamora all’istante e la incontra nuovamente dopo 9 anni, quando riceve il “dolcissimo salutare” (dal latino “salute” salvezza; porta beatitudine); rifugiatosi nella sua camera, Dante si addormenta e sogna Amore che porta fra le braccia Beatrice, le dà da mangiare il cuore dell’amante e piange (questo sogno verrà poi scritto sotto forma di sonetto ed inviato ai più famosi trovatori del tempo); patisce le pene dell’amore, senza però rivelare l’identità dell’amata, arrivando persino a far credere di essere innamorato di un’altra donna che però parte per un lontano paese; Dante deve partire e si avvicina così alla residenza della prima donna-schermo; ha una visione di Amore travestito da pellegrino che gli indica una nuova donna-schermo e, a causa della sua fama da seduttore, Beatrice gli nega il suo “dolcissimo salutare” e da qui nasce in Dante un contrasto fra quattro pensieri sull’amore; quando la rivede ad una festa nuziale, Dante è costretto ad allontanarsi per piangere, poiché deriso per la reazione avuta alla vista dell’amata e invoca la pietà di Beatrice con il sonetto “Con l’altre donne mia vista gabbate”; col sonetto “Ciò che m’incontra, ne la mente more” riflette sulle dinamiche del desiderio e descrive quello che prova in presenza della donna; ultimo di questi tre sonetti che Dante dedica direttamente a Beatrice è “Spesse fiate vegnonmi a la mente” e la materia che seguirà sarà “nuova e più nobile che la passata”; quando Dante viene interpellato dalle donne che gli fanno compagnia, sul come faccia ad essere innamorato di una di cui non riesce neanche a sopportare la presenza, dimostra di aver superato la crisi dovuta al saluto negato, convogliando il suo amore nella lode dell’amata (al di fuori del concetto di scambio o richiesta alla quale era ancora legato anche Cavalcanti); le donne in questo contesto sono detentrici dell’intelletto d’amore, la loro esperienza dell’eros è la più raffinata e cortese (nella didattica erotica la corte delle dame discute sulle questioni d’amore, in questo caso però rielaborato in chiave nettamente più moderna). La sceneggiatura si modella creando un’atmosfera di grazia ed eleganza. Nelle parti narrative la prosa è costruita in modo da non lasciare scarto alle parti in versi, detta “lirica” poiché gli elementi fantastici (visioni, sogni), ritmici (simmetrie, ripetizioni) e fonici (allitterazioni, paronomasie) prevalgono su quelli logici, mentre altri aspetti richiamano la scrittura sacra (Vangeli). Infatti, in quanto veicolo di beatitudine, Beatrice diviene – ideologicamente – una santa, e così la lode a lei diviene una forma di culto/preghiera. Nella canzone “Donne ch’avete” (prima attuazione della poetica della lode) Dante dice che i cieli senza Beatrice si sentono imperfetti ed è per pietà degli uomini e della letizia che la vista della donna dà, che Dio non accoglie la richiesta degli angeli; nella terza stanza descrive gli effetti della presenza di Beatrice (gli ignobili diventano nobili o si annientano, e chi è degno di lei ne ricava felicità); nella quarta stanza Amore contempla la bellezza della donna (il suo candore, la fiamma amorosa che ha negli occhi). “Amore e 'l cor gentil sono una cosa” è un sonetto scritto su richiesta di un amico, allo scopo di spiegare cos’è l’amore (Guinizzelli è il nuovo riferimento per le sue rime, ma vicino anche alla poesia di lode di Cavalcanti). Dante spiega come natura e particolari condizioni siano in grado di creare un cuore nobile, e l’amore che vi risiede si può risvegliare alla vista di una bella e saggia donna. In contrasto con questo pensiero, il sonetto “Neli occhi porta la mia donna Amore” in cui Dante sostiene che la visione di Beatrice può miracolosamente suscitare amore. Dopo la morte del padre di Beatrice e la malattia che affligge Dante per 9 giorni, si rende conto che anche la donna dovrà morire, questo lo porta a delirare e ad una visione del cadavere dell’amata. Dante ci dà una doppia descrizione del culmine del passaggio terreno di Beatrice: in prosa e nei versi del sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” (la quale non conserva più, nella lingua d’oggi, la sfumatura semantica attribuitagli, un’espressione linguistica limpida, priva di asprezze, tipicamente stilnovistica: ad esempio “gentile” e “onesta” hanno il significato di “nobile”, la seconda con una sfumatura che indica il decoro esteriore). Beatrice muore quando Dante ha appena finito di scrivere la prima stanza della canzone “Sì lungamente m’ha tenuto Amore”. Il numero 9 ricorre anche qui, Dante vi lega la figura di Beatrice fin dal loro primo incontro (il nono anno di vita per entrambi); la data della morte è l’8 giugno 1290, ma calcolando le ore (per il giorno), facendo riferimento al calendario siriaco (mese) e quello cristiano (anno), Dante ricava anche qui il numero 9 a cui da un significato astronomico-astrologico (i cieli sono 9 perciò sta a significare che tutti i cieli hanno operato insieme nella creazione di tale perfetta creatura) e uno teologico (come 3 moltiplicato per se stesso da 9, Dio – simboleggiato dal 3 – produce miracoli – simboleggiati dalla potenza di 3 – senza l’intervento della Natura); Dante inoltre, ha una visione di Beatrice nelle fattezze di novenne, in un giorno imprecisato verso l’ora di “nona” (tra le 12 e le 15). Nel “Vita Nova” (cap XXV) Dante anticipa anche i temi del “De vulgari eloquentia”: dice che anticamente la poesia d’amore era solo in latino ed è recente (150 anni) l’inizio della scrittura di tali poesie anche in volgare, nato per consentire alle donne di comprendere ciò che veniva scritto per loro (condannando chi usava il volgare per opere d’altro tipo, atteggiamento di Dante che comunque muterà). Per la morte di Beatrice, Dante scrive un’epistola, non riportata nell’opera poiché in latino; in seguito comporrà un compianto in versi in volgare (“Li ochi dolenti per pietà di core”) e su richiesta del fratello della donna comporrà anche un sonetto accompagnato da una canzone. “Color d’amore e di pietà sembianti” è un sonetto rivolto ad una donna di cui Dante ricerca lo sguardo pietoso che ella gli rivolge. Il pensiero amoroso che egli rivolge alla “donna pietosa” non è malvagio, ma nemico della ragione poiché rifiuta irrazionalmente la verità. L’opera si conclude con un’altra visione che non ci viene comunicata se non per il suo significato: l’amore per Beatrice è un tema troppo complicato, che affrontato con i mezzi a sua disposizione non gli renderebbe giustizia, per questo si chiude con la promessa di un’opera maggiore a lei dedicata. La conclusione (1294 circa) coincide con l’inizio dell’attività politica di Dante di cui parla nel “Convivio”, dove descrive appunto la situazione in cui il comune si trova. Diventa il “poeta della rettitudine” e compone cercando di illuminare riguardo temi come la vera nobiltà (“Le dolci rime d’amor, ch’i’ solìa” commentata nel “Convivio”) o la vera leggiadria (“Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato”). Con “rime petrose” si indica lo stile duro delle poesie che Dante dedica ad una donna anch’essa dura come la pietra, anche detta Pietra, una donna fredda e fiera, probabilmente invenzione letteraria, all’unico scopo di sperimentare uno stile più aspro. Questo va a rovesciare i codici stilistici delle nuove rime dantesche: dense, difficili, ritmate da parole piene di energia, sul modello del trovatore Arnaut Daniel (creatore della sestina). Con queste Dante raggiunge valori estetici altissimi (più delle sue liriche), grazie alla ricerca letteraria, alla sperimentazione di nuovi registri a all’espressione di un’intensa emotività. Lo stile di queste rime verrà poi messo a frutto nella “Commedia”. Il “Convivio” invece fu scritto da Dante mentre era in esilio (1304-06), contemporaneamente al “De vulgari eloquentia”; incompiuto; composto in versi e prosa (a parte poche note biografiche). Secondo il progetto iniziale avrebbe dovuto contenere il testo e il commento in 14 canzoni, ma Dante completò solamente il trattato introduttivo e il commento a 3 canzoni:
    1) “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete”;
    2) “Amor che ne la mente mi ragiona”, entrambe del 1295 circa e di tipo allegorico (cioè con significato multiplo) dove, secondo il senso letterale, sono poesie d’amore per una bellissima donna, ma secondo il senso allegorico questa figura femminile altro non è che la Filosofia;
    3) “Le dolci rime d’amor ch’i’ solìa” (1300 circa), una canzone dottrinale, non troviamo allegorie.
    Il commento ha carattere dottrinario (ad esclusione di poche pagine autobiografiche che riprendono la “Vita nova”): illustra temi filosofici e scientifici, infatti è un’opera di tipo enciclopedico. Il titolo significa “banchetto” e risulta essere un invito al lettore a nutrirsi della scienza, dove le canzoni prendono il senso di “vivanda” e il commento di “pane”. Muta l’ispirazione di Dante, l’amore devia da Beatrice e si dirige verso la Sapienza e la poesia perde i tratti di lode-preghiera e si fa veicolo di verità etiche e scientifiche, e si lega alla realtà sociale (il mondo è dominato da avidità e violenza e Dante si fa portavoce di verità e giustizia). Si allarga anche il pubblico a cui l’opera è dedicata, all’aristocrazia morale (principi, baroni, cavalieri e altra gente nobile, comprese donne e persone che non conoscono il latino), diventando la prima opera italiana indirizzata a tutti gli italiani (accumunati dalla lingua e dalla condizione etico-politica) poiché “tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere”. Ciò viene affermato nel “primo trattato” dell’opera, che in realtà è il discorso proemiale (13 capitoli), in cui sono dichiarante le ragioni dell’opera e giustificata la scelta del volgare (a sostegno dell’idea che Dante ha di quest’opera, un mezzo per distribuire nozioni scientifiche a chi non è in grado di procurarsele da solo). Dante inoltre, dichiara che gli intellettuali professionali non possono ricevere gli insegnamenti della filosofia perché dominati dall’avidità, l’opera è infatti indirizzata solamente a chi moralmente sano, degni di ricevere la verità, ma esclusi da scuole e università (all’epoca c’era la necessità di creare un nuovo gruppo di intellettuali in grado di cooperare per il benessere del Paese). La prosa dell’opera viene definita da Dante stesso “temperata e virile” (quella del “Vita nova” invece era “fervida e passionata): la sintassi è complessa è robusta, adatta a seguire i passaggi del ragionamento filosofico; la raffinatezza delle distinzioni che vengono fatte per spiegare la realtà, è progressiva, si parte da un discorso più ampio che viene articolato in una sequenza di opposizioni binarie inserite l’una nell’altra (cagioni interne/esterne, vizi corporali/morali ecc.); ricco di immagini e metafore. Il “secondo trattato” (15 capitoli) privilegia una scrittura poetica allegorica con la funzione di fissare, attraverso immagini, la verità della filosofia. Nel primo capitolo traccia lo schema dei 4 “sensi” delle scritture (ispirato alla Scrittura Sacra):
    - Letterale, nella Scrittura Sacra ha valore storico, ma nell’opera dei poeti è una bella favola;
    - Allegorico, nella Scrittura Sacra ha valore profetico, mentre per i poeti è la verità nascosta;
    - Morale, dà insegnamenti sulla vita terrena;
    - Anagogico, dà insegnamenti sulla vita eterna ed è infatti proprio della Scrittura Sacra.

    Nel corso del “Convivio” assistiamo all’esaurimento d’interesse di Dante per questo modello di poesia, infatti nella terza canzone non ci sono allegorie a presentare la verità, ma viene esposta così com’è. “Voi, che ‘intendendo il terzo ciel movete”, una delle canzoni commentate da Dante è divisa in 3 parti (invocazione agli angeli motori del terzo cielo; descrizione di una battaglia di pensieri; congedo) e si presenta come una lirica d’amore, dove il solo conforto per l’anima afflitta dalla morte di Beatrice è la visione di lei in cielo. Di nuovo c’è però il pensiero d’amore per una nuova donna che conforta l’anima ed è presente un senso allegorico (segnalato dal fatto che il senso letterale non risulta essere oscuro): questa donna è la Filosofia (già presente nella “Vita nova”). In “Voi che ‘ntendendo” dichiara che questo nuovo amore distrugge ogni altro pensiero, compreso il ricordo di Beatrice. Il divino nel “Convivio” è dato dalla creazione (essere, cosmo, anima, dimensione etica), anche l’ultima canzone citata, si parla del fatto che vi sono nove cieli mobili e l’Empireo (a simboleggiare le scienze), che gli angeli sono intelligenze immateriali create da Dio, che l’immortalità dell’anima è suggerita dalla ragione. Il “terzo trattato” approfondisce la nozione di Amore, che si manifesta nelle creature in proporzione alla loro perfezione, è per questo una proprietà dell’uomo in quanto essere razionale (amore per la virtù e la verità). Spiega poi alcuni aspetti della struttura dell’universo (i movimenti della terra e del sole); mostra i gradi dell’essere (intelligenze angeliche, uomini, animali, piante, minerali) illuminati dalla grazia divina in base alla loro purezza; spiega l’origine e il significato della Filosofia (amore per il sapere, il cui fine è la felicità data dalla visione del vero, e dice che finché l’uomo è in vita nutre tanto desiderio di conoscenza quanto è la sua capacità di comprendere, senza così interferire con il pensiero cristiano che prevede la realizzazione dei desideri dell’individuo). Il “quarto trattato” commenta la canzone “Le dolci rime d’amore ch’i’ solìa” e tratta apertamente il significato di “nobiltà” (una questione etica). Da 2 definizioni:
    - “antica ricchezza e bei costumi”, attribuita a Federico II;
    - “antica ricchezza”, opinione diffusa nel volgo e che indica la nobiltà di stirpe, sostenuta dalla massima aristotelica per cui “ciò in cui tutti concordano non può essere del tutto falso”, affermando comunque che le ricchezze non possono generare nobiltà perché ignobili, e non può neanche essere un fattore di sangue (come si eredità la nobiltà anche l’ignobiltà). Viene infatti infusa da Dio nelle singole anime
    Per dante il monarca è necessario alla specie umana, poiché garantisce la pace; e afferma che Dio elesse il popolo romano per questo compito (anticipando il “Monarchia”), e che Aristotele è guida della ragione umana in quanto ha perfezionato la filosofia morale di Socrate e Platone, che pone il bene nell’operazione virtuosa. Contemporaneamente al “Convivio”, Dante scrive il “De vulgari eloquentia”, un trattato in prosa latina sul volgare; interrotto al cap. XIV del secondo libro, abbiamo pochi indizi su quale fosse il disegno generale dell’opera. Dante è l’unico a connettere volgare e latino (lingua della scienza) in questo modo, e lo rivendica anche all’inizio dell’opera. Nell’opera si distinguono 3 parti:
    - Un ragionamento storico-filosofico sulle lingue: opposizione fra lingua naturale e lingua secondaria, dove il latino viene considerato come una lingua artificiale, i cui scopo è preservare ciò che la mutevolezza delle lingue naturale rende impossibile;
    - Un esame dei volgari italiani: confronto tra il volgare provenzale francese e l’italiano, dove quest’ultimo può essere considerato superiore poiché ad esso appartengono i poeti volgari più dolci e profondi e perché i suoi scrittori si appoggiano di più al latino. Poi esamina le varie parlate italiane per trovare quella più meritevole del titolo di “illustre” che però non coincide con nessun volgare locale, bensì con la lingua dell’intero Paese (vulgare latium, il volgare italiano, in questo modo crea anche la prima carta dei dialetti italiani);
    - L’inizio di una trattazione di stilistica: nel secondo libro rivela che in base alle 3 facoltà psichiche dell’uomo (vegetativa, sensitiva, razionale), le 3 grandi finalità della vita sono l’utile, il piacere e l’onesto (salus, venus e virtus, i 3 magnalia, le cose più importanti). Poi apre un discorso sullo stile partendo dalla definizione della poesia come creazione fantastica espressa secondo le norme della retorica e della musicalità, sulla base di ciò stabilisce che i poeti del volgare lo sono tanto quanto quelli del latino (sono poeti però solo quelli che accettano le norme della retorica e della musicalità, quindi sulla base dei maestri latini). Definisce poi 3 livelli di stile a cui corrispondono altrettanti livelli linguistici (volgare illustre – estensione nazionale – prende il nome della tragedia e richiede magnificenza di verso, costruzione elegante e vocaboli soavi ed eletti; il mediocre – regionale – comedia; umile – locale – elegia). L’interruzione del “Convivio” e “De vulgari eloquentia” coincide con l’inizio della “Commedia” e la sua stesura fu sicuramente influenzata dall’elezione di Enrico di Lussemburgo; di questo Dante parla in alcune epistole da lui scritte in quel periodo (“A tutti e ai singoli reggitori d’Italia”, “Agli scellerati fiorentini intrinseci”, una lettera ad Enrico stesso dell’aprile 1311, “Epistola IX”).
    Nel dibattito tra sostenitori e avversari dell’Impero “romano” della nazione germanica, Dante interviene con il suo “Monarchia”: trattato filosofico in prosa latina; sviluppa tesi politiche già esposte nel “Convivio”; di datazione incerta, forse iniziato con Enrico e perfezionato negli ultimi anni di vita; il titolo significa “unica sovranità”. I 3 libri trattano altrettante tesi:
    1) Necessità dell’Impero: allo scopo di raggiungere la pace ogni conflitto necessita di un giudice, è perciò necessario ce ne sia uno unico e supremo, quale non deve essere contaminato dalla cupidigia poiché un imperatore non ha nulla da desiderare;
    2) Diritto del popolo romano ad esercitare l’Impero: i romani ottennero l’Impero perché sono il popolo più nobile (lo prova la storia), Dio era favorevole;
    3) Dipendenza da Dio dell’autorità imperiale: l’Imperatore può essere scelto solo da Dio ed è in funzione dell’Impero, non viceversa, e l’Impero aveva autorità prima della Chiesa, mentre il regno di Cristo non è di questo mondo.
    A concludere il discorso, Dante aggiunge un corollario di controversa interpretazione: poiché la beatitudine eterna è superiore a quella terrena, l’imperatore deve riverire il papa come un figlio, e il papa deve illuminare l’imperatore paternamente (da intendere alla lettera). Una visione utopica.

    8. La Commedia
    I primi 7 canti dell’“Inferno” sarebbero stati composti mentre Dante era ancora a Firenze, ma non si sa la data effettiva dell’inizio della stesura della “Commedia”, probabilmente non prima del 1307 e rimase disponibile a correzioni fino all’aprile del 1314 – benché forse divulgato tra conoscenti già da tempo. Il “Purgatorio” conterrebbe un’allusine alla battaglia di Montecatini (29 agosto 1315). Del “Paradiso” invece sappiamo – grazie a Boccaccio – che gli ultimi canti entrarono in circolazione solo dopo la morte del poeta. In conclusione, Dante lavorò sulla sua opera per almeno 15 anni. Questa fu da subito nota come “la Commedia”, che andava ad indicare il genere dell’opera (per metonimia e stile): poiché scritta in volgare e con uno spiccato senso comico, umile anche dal punto di vista della trama, i personaggi (il protagonista è un uomo comune), le scenografie; andava a rimarcare così la differenza con la tragedia, un tipo di narrazione in versi dallo stile elevato, più nello specifico con l’”Eneide” di Virgilio, scritto con la grammatica più pura e intangibile, espressioni ricercate, nobile, seria e come protagonista aveva un re. L’appellativo “divina” entrò in uso nel 1555. La “Commedia” narra la storia di un’anima in viaggio nei 3 regni dell’Aldilà (richiama la tradizione di testi sulle visioni dell’Oltretomba, tra questi il più famoso è la “Visio Pauli” e la “Visione” di Alberico di Montecassino) il cui modello è la discesa di Enea agli Inferi (“Eneide”, Virgilio) per incontrare l’ombra del padre Anchise. Troviamo diverse corrispondenze: pianta, situazioni e figure sono una sorta di rielaborazione di ciò che racconta Virgilio; ricrea i Campi Elisi nel Limbo e nell’Eden; l’incontro tra Dante e Cacciagiuda è paragonabile a quello tra Enea e Anchise (rivelazione del destino del protagonista). Il rapporto tra queste due opere non si limita solo a questo. Dante sceglie Virgilio come guida, come figura dai tratti paterni, a lui è legato da un rapporto di discepolato spirituale e poetico; la “Commedia” si pone come l’”Eneide” moderna. A differenza di questa però, l’opera di Dante ha una narrazione in prima persona, che non è una novità, ma solo in questo caso troviamo il narratore-autore che diventa anche personaggio protagonista a tutti gli effetti. La “Commedia” è un’autobiografia – anche (auto)critica se si considera che Dante è un poeta e anche come personaggio lui si confronta con altri autori – sulla base dell’autobiografismo cristiano (come nelle “Confessioni” di Sant’Agostino, dove si narra di una perdita della via e una conversione) dove il senso dell’esistenza individuale è nel rapporto con Dio (Cristo ha patito per ogni uomo e quindi ogni uomo deve convertirsi) e in comunione con il resto dell’umanità. Così la storia narrata nella “Commedia” è sia di Dante che dell’intero genere umano. Per cercare di emulare la grandiosità narrativa dell’”Eneide”.
    Dante si affida all’endecasillabo, più ampio e vario, e per legarlo si rifece a uno schema di livello medio-basso, il sermontesius caudatus, a cui Dante toglie il versicolo e attribuisce al secondo endecasillabo della terzina la funzione di anticipare la rima di quella successiva. L’opera è architettonicamente tripartita, vista la natura della materia narrata: l’articolazione strutturale è fissatra in 3 canzoni o cantiche, collegate dall’epifora (ripetizione) della parola “stelle”. Le cantiche hanno più o meno la stessa estensione (4720, 4755, 4758 versi, in totale 14233). Il numero di canti è 33 in ognuna delle cantiche (più il canto introduttivo) e richiama alla ricorrenza del numero 3 del “Vita Nova” (Padre, Figlio e Spirito Santo) e simboleggia l’onnipresenza di Dio creatore; nel complessivo sono 100 canti rappresenta la perfezione del creato. L’ordine della poesia è un riflesso dell’ordine universale, che a sua volta somiglia a Dio. L’inizio della “Commedia” segna 3 punti di riferimento:
    - Tempo d’azione: sono trascorsi 1266 anni e 19 ore dalla morte di Cristo, si svolge perciò nel 1300, anno del primo Giubileo cattolico;
    - Luogo;
    - L’io narrante: rivelato per gradi (prima apprendiamo che è uno scrittore, che è amico di Beatrice, che è fiorentino e solo nel “Purgatorio” viene pronunciato il suo nome).
    L’Aldilà dantesco è una voragine conica che tocca il centro della Terra, è contornata da gradoni (come un anfiteatro); il sistema dei peccati e delle pene si basa sull’”Etica” di Aristotele (ci sono 3 cattive disposizione di gravità crescente: incontinenza, bestialità e malizia), mentre nel Purgatorio le pene sono disposte diversamente poiché sulla base dei vizi capitali della morale cristiana (raggruppati scolasticamente come deviazioni dell’amore naturale), e una volta purificate le anime ascendono all’Eden. Al centro del globo è posto Lucifero, con testa e busto nell’emisfero settentrionale e le gambe in quello meridionale; attraverso un ruscello sotterraneo, l’Inferno comunica con la montagna dell’Eden (tra Gerusalemme e circonda dall’Oceano, secondo le varie dottrine medievali sulla localizzazione e la fisionomia del Paradiso) alle cui pendici c’è il Purgatorio (non eterno, destinato a svuotarsi nel giorno del Giudizio; idea originale di Dante) e sulla cima il Paradiso terrestre. Nel Purgatorio l’anima non viene punita, ma soggiorna per il tempo necessario alla sua purificazione. Una volta salve le anime raggiungono la foce del Tevere, condotte da un angelo raggiungono la spiaggia della montagna dell’Eden dove le attende Catone. L’Antipurgatorio è composto da balze dove i morti scomunicati e gli spiriti negligenti attendono prima di iniziare l’ascesa. Alla vera e propria porta del Purgatorio c’è un angelo guardiano, vicario di San Pietro, e oltre ad essa il monte è diviso in sette cornici e gironi (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria), ognuno di essi vigilato da un angelo. Una volta ascese all’Eden, Matelda porta le anime purificate a vere dai fiumi Lete ed Eunoè (le cui rispettive acque cancellano i ricordi delle colpe e ravvivare la memoria del bene); dopodiché sono libere di salire “alle stelle”. Nel Paradiso le anime dei beati contemplano e amano Dio, in una dimensione che è al di là dello spazio e del tempo (poeticamente una sfera che avvolge il sistema fisico dei cieli, ma in realtà è un non-luogo). Dante per rispecchiare le strutture delle due Cantiche precedenti, immagina di avere visione di diverse schiere di anime sante in ciascuna delle sfere celesti (secondo il sistema geocentrico del cosmo di Tolomeo) che compongono il Paradiso. Prima troviamo i cori angelici (nell’ordine: Angeli – Luna; Arcangeli – Mercurio; Principati – Venere; Potestà – Sole; Virtù – Marte; Dominazioni – Giove; Troni – Saturno; Cherubini – Stellato; Serafini – Primo mobile).
    Al suo risveglio nella selva, Dante usa il verbo “mi ritrovai” che indica appunto un ritorno alla coscienza. Quando si mette in cammino verso il colle illuminato dal primo sole, viene bloccato da tre bestie: la lonza, un felino non meglio definito, dal manto maculato, a simboleggiare probabilmente la lussuria; il leone, la superbia; la lupa, la cupidigia, più pericolosa tra le tre e la quale lo costringe ad arretrare di nuovo verso l’oscurità (potremmo identificarla come la Chiesa che con la sua sete di dominio terreno si è fatto nemica dell’Impero). Ed è qui che compare Virgilio e che comincia davvero la storia. La selva rappresenta la vita sulla terra, afflitta dal peccato; la verace via è Cristo; il sole è Dio; il colle è l’Eden, la felicità naturale; le bestie sono tentazioni diaboliche, che impediscono non solo a Dante di tornare sulla retta via con le sue sole forze, ma affliggono anche il resto dell’umanità. E se Dante significa umanità, Virgilio e Beatrice sono le due guide che Dio ha concesso all’umanità: la Ragione naturale e la Rivelazione. Dante comunque teme l’ingresso nell’Aldilà, sa di non essere né Enea né San Paolo (i quali avevano come missione quella di fondare l’Impero e la Chiesa), ma Virgilio lo rassicura che è assistito da 3 donne celesti: Maria, Lucia e Beatrice (lei stessa ha chiesto a Virgilio di fare da guida a Dante). È chiamato a ricevere e trascrivere verità che saranno ragione per gli uomini di felicità temporale, e che danno conforto alla fede. Il mandato viene espresso da Beatrice nell’Eden e da San Pietro in Paradiso. La cronologia del viaggio di Dante è serratissima: l’incontro con le 3 fiere avviene la mattina del 25 marzo 1300, di venerdì; la discesa nell’Inferno comincia al tramonto e prosegue fino alla sera del giorno successivo; la risalita verso il monte Eden dura 21 ore, ma a causa del passaggio da un emisfero all’altro c’è un guadagno di 12 ore (19:30 del 26 a Gerusalemme, 7:30 dello stesso giorno nell’Eden); si ritrova ai piedi del monte all’alba del 27; completa la sua purificazione a mezzogiorno del 30 (il percorso nel Purgatorio è più lungo poiché è possibile proseguire solo con la luce, senza luce non può esserci ascensione al bene); l’ascensione attraverso i cieli dura circa 19 ore, mentre la visione dell’Empireo si svolge in un tempo non calcolabile. Come anche altre opere di Dante, la “Commedia” ha una duplice lettura, tra senso letterale e allegorico (mistico in questo caso) diverso da quanto si intendeva nel “Convivio”):
    - il senso letterale ha una costruzione dinamica ben calcolata, caratterizzata dal ritorno dei temi (spesso rappresentati con parole-chiave) e dal chiarimento che avviene a distanza attraverso la ricerca di episodi paralleli (sull’esempio dell’esegesi biblica medievale) ad esempio:
    - tema dell’amore introdotto da Francesca nell’IF5 e completato da Virgilio nel PG18;
    - tema della virtù mondana e dell’orgoglio (IF15 - episodio dei superbi PG11-12);
    - Pier delle Vigne, suicida per “disdegnoso gusto” (IF13) è l’anti-tipo di Romeo che affrontò l’ingiustizia e l’esilio con coraggio (PD6).
    - il senso allegorico, rapporto tra figura e figurato basato sul piano della realtà narrativa: Dante è membro dell’umanità che “mal vive”, Virgilio è un eroe della ragione, Beatrice è una santa; raramente la funzione allegorica eccede la determinatezza del personaggio; in molti casi Dante avverte il lettore con espressioni appropriate, attraverso i 3 sogni del “Purgatorio” (l’aquila d’oro – la grazia divina, la femmina balbuziente – la cupidità e Lia – la vita attiva), ricorre a complesse figurazioni simboliche per disegnare profili storici (la statua del Veglio di Creta che dovrebbe rappresentare la storia dell’umanità in declino dall’età dell’oro a quella presente, e le vicende del Carro che rappresentano la storia della Chiesa dalla sua fondazione a Clemente V); sicuramente anche altri momenti abbiano un soprasenso, ma i virtuosismi e la maniacale ricerca del senso mistico, non ne rendono facile il riconoscimento.
    Alla questione dell’allegorismo si lega quello della “fictio” (finzione) narrativa; questa ci dice che Dante affronta un viaggio per Inferno e Purgatorio con un corpo “corruttibile”, terreno, mentre in Paradiso è indecisa la sua condizione, che viene descritta come se effettivamente il corpo lo avesse ancora, mentre nella visione dell’Empireo è san Benedetto ad utilizzare un’espressione che lascia intendere il rapimento dello spirito (“t’assonna”). Tutto ciò resta attinente al racconto. La visione che Dante ha degli accadimenti politici della sua epoca, si diventa l’indignazione della coscienza morale, la Provvidenza tiene comunque il filo della storia tra le sue mani. Firenze è il suo mondo, amata e odiata allo stesso tempo, guarda ad essa con nostalgia e indignazione per quello che è diventata. Dante fa della politica uno dei temi secondari dell’opera. Attraverso il discorso di Marco il lombardo, che fu un saggio uomo di corte, Dante si sofferma sugli aspetti essenziale di questo problema etico-politico, per lui la ragione va ricercata nel libero arbitrio, non nelle influenze celesti poiché l’anima umana è incline al bene, ma può essere tratta in inganno dalle cose mondane. Anche il papa (unica guida che resta al popolo) è soggetto a questi condizionamenti, ne è la prova la situazione politica dell’Italia dell’epoca, che porta inesorabilmente ad una devianza del popolo. Dante dedica eloquenti versi alla degenerazione della Chiesa (i simoniaci e il dittico dedicato a San Francesco e San Domenico). Oltre ciò Dante va a strutturare una piccola enciclopedia (teologico-)filosofica, sulla base dell’”Etica” di Aristotele, la morale scolastica e la cosmologia di Tolomeo, attraverso vari interventi di Virgilio, Stazio e Beatrice, prendendo il posto dell’incompleto “Convivio”. A differenza di questo però Dante nega che il desiderio di conoscenza, in precedenza da lui definito naturale, possa trovare soddisfazione nella vita terrena, bensì dopo. I capitoli filosofici non sono mai dettati da interesse accademico, ma dall’etica del discorso, hanno lo scopo di fissare la posizione dell’uomo nel creato. Il più complesso tra i canti filosofici è quello del “Paradiso” in cui egli stesso interroga Beatrice sulle ombre visibili sulla faccia della Luna visibile dalla Terra; Dante ripropone la tesi fatta nel “Convivio”: Beatrice osserva che, se la diversa luminosità delle stelle si spiegasse con la densità della materia, tutte le stelle dovrebbero essere diverse per assenza-presenza di virtù, ma se tutte le stelle fossero uguali, avrebbero anche la stessa influenza sulla generazione dei corpi celesti, il che è impossibile (secondo la scienza medievale gli uomini erano diversi perché diversamente soggetti a influenze celesti, solo le anime umane immortali erano direttamente create da Dio); quindi la diversa luminosità dei corpi celesti – stelle tra stelle e la luna tra le sue diverse parti – dipende proprio dalla molteplicità di queste virtù che vanno a legarsi alla “quinta essenza”, andando a formare della materia più o meno preziosa. Forme pure (angeli), materia prima e i composti indissolubili tra queste (i cieli) furono creati da Dio fin da subito: il Cielo Primo mobile ha una virtù “informante”, distribuito secondo diverse “essenze” dal Cielo Stellato; gli altri ricevono la virtù vitale dall’alto e la trasmettono alla Terra, producendo queste “diversità”. Traducibile come: tutto ciò che esiste in Terra è prodotto e immagine dell’amore divino. Tra le varie domande che Dante si pone c’è anche quella su come sia possibile che gli spiriti subiscano pene materiali, Stazio gli risponde con la genesi dell’uomo: la parte del sangue dell’uomo che possiede la “virtù” di creare (membra), diventa seme e quando si unisce a quella della donna, la coagula e quella dell’uomo diventa anima vegetativa (il feto è visto come una pianta), procedendo secondo gli elementi comuni dell’embriologia medievale (aristotelica). Quando il corpo muore, l’anima immortale non perde la virtù formativa ed esercitandola, in quel momento, crea un corpo fittizio capace di soffrire (teoria originale di Dante). Ampiamente discussa anche la nozione della responsabilità morale personale nei cui confronti Dante ha un atteggiamento conforme alla dottrina cattolica ortodossa – influenzata dall’etica aristotelica e neoplatonica: Marco Lombardo non sottomette la coscienza alla forza degli astri, ma riconosce a questi solo un primo impulso ai desideri e alle azioni, l’intelletto resta libero di distinguere tra bene e male, così come la libertà su quale perseguire; Virgilio difende il libero arbitrio dagli errori dei ciechi che si fanno guide, nel PG17, e dice che bisogna distinguere fra la bontà dell’amore come tensione dell’animo e bontà effettiva del desiderio concreto in cui quella tensione è specifica. La concezione del libero arbitrio di Dante è quindi razionalistica, tanto da porla nella facoltà più alta dell’uomo: quella intellettuale. Così gli torna anche più facile motivare le scelte moralmente cattive. In particolare, Dante fa uso di questa scusante (della libertà dell’uomo) quando deve sottolineare le responsabilità e le virtù dell’uomo (e del lettore cristiano), ma si sposta sulla misericordia di Dio, quando vuole dare speranza a chi soffre a causa della propria condizione. Il soggetto dell’opera potrebbe essere considerato duplice:
    - secondo il senso letterale è la condizione delle anime dopo la morte, il viaggio salvifico di un vivo attraverso i regni dell’Aldilà;
    - secondo il senso allegorico (e morale) è l’uomo soggetto alla giustizia, al premio o alla pena, rivelando la misericordia divina.
    In realtà, pare evidente che il vero soggetto dell’opera è il mondo dei vivi e non quello dei morti: i personaggi si presentano con le fattezze (e le passioni) dei viventi; il destino che spetta all’anima dopo la morte del corpo è dettato dal bene e dal male compiuto in vita; i tormenti della vita sono eterni e perseguitano gli individui fin dopo la morte. In Dante personaggio avviene una profonda conversione che lo porta dalla disperazione alla speranza, dal peccato alla visione divina, dal torpore all’estasi, attraversa l’angoscia, il timore, fino a recuperare la fiducia e la gioia. Ogni tratto del viaggio porta ad un approfondimento introspettivo, più o meno marcato in base al contatto tra contesto e storia del personaggio. Il viaggio per Virgilio invece non porta ad un mutamento interiore, poiché egli stesso è un dannato ed ha già pieno possesso di sé. Beatrice, d’altro canto, va in soccorso di Dante e la sua comparsa in ogni cantica rispecchia la situazione morale del protagonista: Dante sopraffatto dalla Lupa e Beatrice piange per la compassione (Inferno); Beatrice riappare prima accusando Dante del peccato e poi lo abbraccia fraternamente (Eden); Beatrice maestra e guida al posto di Virgilio (ascesa ai cieli). Come dicevamo gli spiriti dei dannati sono rappresentati con un corpo fittizio, cioè umano, vivo, a questo si aggiunge la visione del mostruoso che è rappresentato come l’unione innaturale di elementi naturali/realistici, sulla base di simbologie e imitazioni dell’esperienza onirica. Anche i luoghi sono riproduzione fedele e realistica di quelli terrestri: l’Inferno è una grotta oscura, con fiumi, città, paludi, burroni, fiamme e gelo; il Purgatorio si trova sulla Terra, esiste lo scorrere del tempo (che si fa sia motivo poetico che modulazione liturgica); nell’Eden la bellezza degli elementi e delle forme terrestri risplende al più alto grado, ma come ci dice Dante non esistono parole con cui sia possibile descriverlo, è una composizione astratta legata all’immaginario simbolico medievale (si fa ricorso a similitudini).
     
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    Ghəi Chinəsi

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    Divina Commedia (altro)
    Titolo e genere:
    “La Commedia” è il nome con cui il poema di Dante fu da subito riconosciuto. “Divina Commedia” apparve per la prima volta nella bibliografia dantesca di Boccaccio, a sottolineare la sublimità dell’opera, oppure ad indicare gli argomenti cantati, di carattere oltremondano.
    Il titolo fu scelto da Dante ad indicare il genere e lo stile della sua opera, e per confrontarla ed opporla all’alta tragedia romana: l’Eneide di Virgilio, opera scritta con la più pura e intangibile grammatica, seria, nobile, in totale contrasto con la Divina Commedia (scritta in volgare fiorentino).
    Il poema è detto “Commedia” non solo per la trama, ma le espressioni linguistiche usate, come volesse alludere anche al grado stilistico e all’insieme delle risorse letterario impiegate: la lingua; i personaggi; gli oggetti; le ambientazioni.

    Data di composizione:
    La stesura e la composizione dell’opera e delle singole cantiche, non può essere situata cronologicamente, senza approssimazioni. Secondo la tradizione (legata a ciò che Boccaccio scrisse nella prima biografia dantesca) il poema fu iniziato in forma di lode a Beatrice e i primi sette canti dell’Inferno sarebbero stati composti quando Dante si trovava ancora a Firenze, e dopo il 1306 continuato in esilio.
    Non esistono prove sicure che la Commedia sia stata cominciata prima del 1307, visto soprattutto l’impegno riposto da Dante nella stesura di opere come il “De vulgari eloquentia” e il “Convivio” fino al 1306.
    Nell’Inferno sono inseriti eventi storici contemporanei all’anno 1309; nel Purgatorio gli avvenimenti si spingono fino al 1313.
    L’Inferno circolava tra il 1313 e il 1314, anno fino alla quale rimase disponibile a correzioni e interventi. Il Paradiso venne diffuso dall’autore stesso tra gli amici (dei lettori scelti) per singoli canti o in gruppi, ma da ciò che Boccaccio dice, gli ultimi canti entrarono in circolazione solo dopo la morte del poeta.
    Dante lavorò alla Commedia per almeno quindici anni.

    Simbolismo numerico e architettura del poema:
    Quasi 15 mila (14.223) endecasillabi.
    100 Canti, di oscillante ampiezza tra i 115 e i 160 versi.
    3 Cantiche:
    - Inferno, 34 Canti di cui il primo a scopo introduttivo, 4720 versi, 9 Cerchi;
    - Purgatorio, 33 canti, 4755 versi, 7 Cornici + la spiaggia e l’Antipurgatorio (9);
    - Paradiso, 33 Canti, 4750 versi, 9 Cieli.
    La scelta del verso ricade sull’endecasillabo, il tipo di verso più ampio e vario della tradizione italiana, rifacendosi al sermantesius caudatus (sermontese romagnolo, su due o tre endecasillabi con la coda, schema di livello medio-basso di pertinenza comica). Attribuisce al secondo endecasillabo della terzina la funzione di anticipare la terzina successiva (ABA, BCB, CDC fino a YZYZ).
    La ripartizione è dettata in modo naturale dal tema della “Commedia” (Inferno, Purgatorio e Paradiso) per questo Dante fissa un’articolazione strutturale in tre cantiche collegate dall’epifora (figura retorica, ripetizione della parola) di “stelle”.
    La simmetria non è ricercata solo nell’architettura dell’universo, ma anche in quella del poema stesso.

    Canti proemiali:
    Tre punti di riferimento: (dati dall’inizio della Commedia)
    - Tempo: 1300 (1266 anni e 19 ore dalla morte di Cristo);
    - Luogo: una regione misteriosa, forse in oriente (dove si trova l’Oltretomba);
    - “Io” narratore: rivelato gradualmente.
    La guida che riconduce alla verità e alla salvezza è inizialmente Virgilio, per poi diventare Beatrice per proseguire il cammino tra le “beate genti”.

    Calendario:
    Il viaggio di Dante segue una cronologia ben strutturata:
    - Incontro con le fiere: 25 marzo 1300, venerdì (anniversario della morte di Gesù);
    - Discesa per l’Inferno: comincia a l tramonto e dura fino alla sera del giorno dopo;
    - Risalita verso il monte dell’Eden: dura 21 ore, ma con il passaggio da un emisfero all’altro c’è un guadagno di 12 ore (a Gerusalemme sono le 19:30 del 26, nell’Eden sono le 7:30 dello stesso giorno);
    - Ai piedi del Monte: alba del 27 marzo, domenica;
    - Completamento della purificazione: a mezzogiorno del 30.
    Il percorso nel Purgatorio è più lungo perché il cammino è concesso solo con la luce: l’ascesa al bene non può avvenire senza l’illuminazione divina.
    L’ascensione ai cieli dura 19 ore e la visione dell’Empireo (Dio) si svolge in un tempo non calcolabile.

    L’Aldilà:
    La cosmologia dell’universo dantesco proviene dalla letteratura biblica, scolastica e dal pensiero cristiano, e segue le conoscenze e concezioni fisiche della scienza medievale. L’Aldilà ha una struttura simmetrica (per quanto possibile): il numero dei Cieli è lo stesso dei Cerchi infernali e anche il Purgatorio può essere portato a nove con l’Antipurgatorio e l’Eden.
    • Inferno: una voragine conica la cui creazione fu causata dalla caduta dal cielo di Lucifero, si apre sotto Gerusalemme e tocca il centro fisico della Terra. Al centro del globo Lucifero ha la testa e il busto nell’emisfero settentrionale e le gambe nell’emisfero meridionale. Per evitare il contatto con Lucifero, una massa di terra risalì in mezzo all’oceano formando un’altissima montagna, la cui cima (posta oltre il confine delle meteore, oltre le sfere dell’acqua e del fuoco) è occupata dalla foresta del Paradiso terrestre; a causa della caduta si formarono i continenti (tra le colonne d’Ercole e il Gange).
    È contornato da gradoni circolari, formando un anfiteatro:
    - Antinferno: ignavi (che non scelsero fra bene e male);
    - Acheronte: primo fiume infernale e Caronte il nocchiere;
    - I Cerchio, Limbo: innocenti non battezzati (tra cui Virgilio);
    - Dal II al V Cerchio: lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi; dati in custodia a personaggi della mitologia trasformati in demoni (Minosse, Cerbero, Pluto e Feligiàs);
    - Stige: palude in cui sono immersi i dannati del V Cerchio;
    - Dite (basso Inferno): città-prigione delle anime più nere e degli angeli caduti (diavoli);
    - VI Cerchio: eretici;
    - VII Cerchio: violenti, divisi in tre gironi:
    1. Violenti contro il prossimo nella persona e negli averi: tiranni e omicidi, guastatori e predoni;
    2. Violenti contro se stessi nella persona e negli averi: suicidi e scialacquatori;
    3. Violenti contro Dio nella persona, nella natura e nell’arte/lavoro: rispettivamente bestemmiatori, sodomiti e usurai.
    - Flegetonte: fiume di sangue bollente;
    - VIII Cerchio: ingannatori, suddiviso in dieci Bolge: ruffiani e seduttori; adulatori; simoniaci (simonia: compravendita di cariche ecclesiastiche); indovini; barattieri; ipocriti; ladri; consiglieri di frode; seminatori di scandalo; falsatori e falsatori di persona.
    - IX Cerchio: traditori, un pozzo diviso in quattro zone:
    1. Caina: traditori dei congiunti;
    2. Antenora: traditori politici;
    3. Tolomea: traditori degli ospiti;
    4. Giudecca: traditori dei benefattori.
    - Cocito: fiume ghiacciato sul fondo del IX Cerchio.
    • Purgatorio: alle pendici della montagna dell’Eden, non è eterno e si svuoterà nel giorno del Giudizio. L’ordine delle pene è invero a quello dell’Inferno (dal peggiore al meno grave) perché è riferito ai vizi capitali della morale cristiana, deviazioni dell’amore naturale. L’anima che si purga soggiorna per il tempo necessario in ciascuno dei gironi corrispondenti ai peccati commessi:
    - Foce del Tevere: dove le anime salve si affollano e da qui un angelo le conduce fino alla spiaggia della montagna dove vengono accolte da Catone;
    - Antipurgatorio: morti scomunicati e spiriti negligenti, pentiti sul letto di morte e quelli morti violentemente;
    - Porta del Purgatorio: vi è addetto un angelo guardiano, vicario di San Pietro;
    - I, II e III Balza: accumunate dall’amore diretto al male, superbi, invidiosi e iracondi;
    - IV Cornice: accidiosi;
    - V, VI e VIII Girone: eccessivo amore verso i beni terreni: avari, golosi e lussuriosi.
    Le anime purificate ascendono all’Eden, dove bevono dai fiumi Lete (cancella il ricordo delle colpe) e Eunoè (ravviva la memoria del bene).
    • Paradiso: muta la natura e la causa della classificazione, che non viene commentata direttamente da Dante. Per creare una stratificazione finge che diverse schiere di anime gli si offrono in visione in ciascuna Sfera Celeste: al moto delle sfere celesti (costituenti il moto geocentrico descritto da Tolomeo) sono preposti i Cori Angelici (Angeli-Luna, Arcangeli-Mercurio, Principati-Venere, Potestà-Sole, Virtù-Marte, Dominazioni-Giove, Troni-Saturno, Cherubini-Stellato, Serafini-Piano Mobile). Ogni beato è soddisfatto.
    - Empireo: dimensione ontologica aldilà dello spazio e del tempo, dove dimorano tutti i beati, immaginabile come una sfera che avvolge il sistema fisico dei cieli, ma in realtà non ha poli.
    Il sistema dei peccati e delle pene si basa sui criteri aristotelici di giudizio morale, che indica tre cattive “disposizioni” morali (malizia, incontinenza e bestialità).

    L’umanità del mondo è splendore divino. L’apertura dell’opera è francescana (fantastica e affettuosa).
    Gli spiriti sono rappresentati con un corpo fittizio (immagine di un uomo vivo), atteggiati nella loro scena, spesso devastati; nel Paradiso invece si presentano come gemme luminose.
    Nell’Inferno non si trascura il momento del “mostruoso”, legato all’arte cristiana medievale, le cui radici sono inserite nell’immaginario apocalittico. La figura mostruosa si realizza attraverso la condensazione innaturale di elementi naturali (spesso realistici).
    Nell’Inferno si incontra tutto ciò che può rendere il cammino più faticoso e penoso (paludi, burroni, fiumi ribollenti ecc).
    L’atmosfera del Purgatorio è diversa, a partire dalla sua luce. Non è un mondo eterno, l’espiazione avviene in un arco di tempo. Il volgere del giorno diventa motivo poetico, pittorico e nell’ora che batte è colta la condizione dell’uomo.
    Nell’Eden risplendono ai loro massimi la bellezza degli elementi, rari però sono i tentativi di riferimenti diretti allo spettacolo celeste. Frequente ricorso a similitudini.

    Storia e profezia:
    La pluralità dei significati (polisemia) della Divina Commedia può essere riportata alla duplicità di senso letterale e senso allegorico (mistico). Il senso letterale ha una costruzione dinamica: i temi ritornano, spesso rappresentati con parole chiare e il chiarimento avviene a distanza.
    Anche il tema (subiectum) è duplice:
    - Letterale: viaggio salvifico di un vivo attraverso i regni dell’Aldilà;
    - Morale/allegorico: rivela la misericordia divina, unita alla giustizia.
    Presa come opera poetica, il vero tema non è il mondo dei morti, ma quello dei vivi. L’Aldilà è rappresentato con le forme del nostro mondo e le anime fanno fisionomia e passioni dei viventi.
    Dante filosofo vede le anime come eternamente vive, per Dante poeta invece sono al culmine della loro vitalità, fisse però in un attimo senza fine.
    Due aspetti della visione cristiana: personalità e immortalità dell’anima, ma anche l’idea che la vita terrena sia il breve momento in cui si decide il destino eterno. Il bene e il male anticipano il bene e il male eterni.

    Traduce in strutture testuali d’autore l’esegesi (la critica) biblica medievale: ricerca di episodi paralleli, dove il più antico prefigura il più recente:
    - Il tema dell’amore, esposto nell’Inferno, trova il suo compimento nel Purgatorio;
    - Il motivo politico si sviluppa secondo una linea ascendente, sul canto sesto di ogni cantica;
    - Il tema della virtù mondana e dell’orgoglio, posto nell’Inferno, si completa nel Purgatorio;
    - L’antitesi tra il viaggio di Ulisse e quello di Dante viene richiamato nell’Inferno 26, 125 e nel Purgatorio 15, 54.
    Altri motivi sono rappresentati da sistemi metaforici durante l’intero poema:
    - La navigazione: immagine dell’esistenza perigliosa, ma destinata ad un porto tranquillo;
    - La falconeria: immagine dell’elevazione morale o del contrario;
    - Il mangiare: immagine del conoscere.
    Il senso allegorico è stabilito sul piano della realtà narrativa (non è convenzionale e arbitraria):
    - Dante è un membro dell’umanità “che mal vive”;
    - Virgilio è un eroe della religione;
    - Beatrice è una santa.
    Alcuni episodi hanno sicuramente un significato spirituale (mistico). Al di là del senso letterale, Dante avverte di questo attraverso espressioni appropriate, richiamando direttamente l’attenzione del lettore.
    Tre sogni del Purgatorio:
    - L’aquila d’oro = La grazia divina (Canto IX);
    - La femmina balbuziente = I beni mondani (Canto XIX);
    - Lia = La vita attiva (Canto XXVII).
    In altri punti, Dante, ricorre a complesse figurazioni simboliche, per disegnare profili storici:
    - La statua piangente del Veglio di Creta (Inferno XIV), fatta con parti d’oro, argento, rame, ferro e terracotta: declino dell’umanità, dall’età dell’oro al presente;
    - Le vicende del Carro (Purgatorio XXXII): la storia della Chiesa, dalla fondazione del papato di Clemente V.
    Il Veltro unisce tratti romano-imperiali a una fisionomia escatologica (che riguarda il destino dell’uomo e dell’universo), verrà a chiudere il tempo aperto dalla seduzione satanica nell’Eden. Prevalenza dell’esortazione etico-politica sull’annuncio profetico-apocalittico.
    Sicuramente anche altri momenti della narrazione hanno un soprasenso (come i sette cerchi di mura del Nobile Castello o le tre facce di Lucifero), così come tutta l’argomentazione liturgica del passaggio purgatoriale è un processo ascetico, risultano però poco riconoscibili a causa delle numerose interpretazioni e del fatto che non aggiungono altro che non sia già stato dichiarato nel senso letterale.

    La finzione narrativa ci dice che Dante viaggia con il suo corpo umano, ma la condizione in cui il percorso di svolge resta indecisa: come ad esempio durante la visione dell’Empireo attraverso il rapimento dello spirito.
    Opera d’intelletto o d’ispirazione divina.
    L’alta poesia da la possibilità di sognare verità storico-provvidenziali, altrimenti irraggiungibili all’intelletto umano, in questi termini è da considerare una variante della scrittura profetica.

    Questioni di dottrina:
    La stessa struttura dell’Oltretomba e l’idea del viaggio sono sostenute da un ricco complesso dottriniano, in cui entrano l’Etica aristotelica, la morale scolastica e la cosmologia tolemaica. Il tentativo è quello di integrare la filosofia di Aristotele alle basi razionali del pensiero cristiano. Resta però ancora ancorato a conclusioni ortodosse compatibili con la fede cristiana.
    La “Commedia” nega che il desiderio di conoscenza (naturale) possa essere soddisfatto in vita, bensì questo avverrà solo in seguito.
    I Canti dai tratti più filosofici non sono mai dettati da interesse accademico, ma sempre funzionali all’asse etico del discorso; necessari a fissare la posizione dell’uomo nel Creato. Paradiso III Canto è il più tecnico dei capitoli filosofici: Beatrice viene interrogata da Dante riguardo i “segni blu” visibili sulla faccia che il pianeta mostra alla Terra.

    Dio creò le forme pure (Angeli), la materia pura e prima, i composti indissolubili di forme e materia (i Cieli). Il cielo Primo Mobile, riceve da Dio una “virtù informante” che distribuisce secondo diverse essenze; i cieli inferiori ricevono la virtù vitale dall’alto e la trasmettono alla Terra, producendo vita. I movimenti celesti sono prodotti dagli angeli motori.
    Il cosmo viene così rappresentato come un sistema di intelligenze produttrici e volere divino.

    Purgatorio, XXV Canto, Dante chiede a Stazio come possa succedere che gli spiriti subiscano castighi e pene materiali. Stazio gli descrive la genesi dell’anima umana, la quale riprende elementi comuni dell’embriologia medievale.
    Le funzioni intellettuali invece vengono riportate seguendo la dottrina di Averroè, con allusioni alle tesi di Guido Cavalcanti.
    L’intelletto è separato e unico, nell’anima sensitiva è rivista la “forma” dell’individuo. Per i cristiani invece l’anima intellettuale e personale è creata da Dio.
    Dante afferma che un’anima sola ha sia la funzione negativa, sia sensitiva che intellettiva. Quando il corpo muore, l’anima immortale imprime la propria immagine nell’aria circostante.
    L’individualità e la personalità sono fondamento della responsabilità morale davanti a Dio. Dante mantiene una posizione conforme alla dottrina cattolica anche per quanto riguarda il “libero arbitrio” (Virgilio lo difende nel Purgatorio, XVIII Canto). Bisogna distinguere tra la naturalità (bontà) dell’amore e la “bontà” del desiderio. Impressi nell’anima dall’origine, la scelta morale e la responsabilità investono invece la tensione istintiva, e fra tensione e azione interviene il libero arbitrio.
    Il tema della “predestinazione” è messo a fuoco dalla salvezza o dalla condanna dei giusti non credenti.

    Personaggi:
    Personaggio: rappresentazione dell’uomo sottoforma di individuo determinato.
    I personaggi dinamici, che si sviluppano durante il poema, sono tre:
    - Dante: il viaggiatore-narratore; il lui si verifica un’autentica e profonda conversione, dalla disperazione alla speranza, dal torpore del peccato all’estasi nella visione di Dio;
    - Virgilio: ovviamente non subisce un mutamento interiore; p un aiutante che ha già pieno possesso di sé e va ad affiancarsi al personaggio in viaggio di formazione; è una figura paterna, saggia, ma che non perde la sua umanità;
    - Beatrice: la sua presenza, nelle tre cantiche, rispecchia la situazione morale del protagonista: nel Limbo piange per la compassione nel vedere Dante sopraffatto dalla lupa; nell’Eden riappare splendente di santità, accusa aspramente il peccato e lo abbraccia fraternamente; è maestra e guida (sostituisce Virgilio), ma è anche la realtà dell’amore.
    Gli altri personaggi, giustamente, non possono seguire una crescita progressiva (struttura del poema e la loro condizione), non possono conseguire un’autentica coscienza di sé.
    - Francesca: (V Canto) figlia di Guido da Polenta, amante del cognato Paolo, con lui uccisa dal marito (Gianciotto Malatesta). È tra i “peccatori carnali” (i lussuriosi), i quali vengono trascinati da una bufera senza fine (metafora lirica della tempesta passionale).
    Questa coppia che vola leggera nel vento, si avvicina richiamata dalle parole affettuose di Dante; l’immagine trasmette eleganza e tensione sessuale.
    Il racconto di Francesca ha cadenza anaforica (dove i versi incominciano con una o più parole uguali), vorrebbe fare di “amor” l’unico soggetto attivo della vicenda. L’amore provato e dichiarato da Francesca è solo passione e continua a vivere nel personaggio, non sono propriamente due anime che si amano. Francesca è pentita, offesa dalla sua trasgressione, ma non possiede autentica coscienza del peccato commesso. La coppia Francesca-Paolo è in completa opposizione a quella Beatrice-Dante.
    L’insistenza di Francesca sulla mediazione del libro rivela lo sforzo di respingere o diminuire la responsabilità del peccato personale. A causa di ciò, Dante, da un giudizio etico negativo sulla letteratura che celebra l’eros. Il suo stesso svenimento causa anche della pietà, del dolore, per l’umanità percepita sia nel peccato che nella pena) sottolinea quanto la passione e la sessualità siano tragiche e causa di perdizione.
    Il peccato dell’eresia non potrebbe figurare nello schema aristotelico se Dante non ne avesse esteso la nozione inserendo il rifiuto (bestiale) di una verità come l’immortalità dell’anima.
    - Farinata: Manenete degli Uberti, capo dei ghibellini di Firenze. Fiero e severo, nobile e magnanimo, degno d’onore e cosciente della dignità sua. La sua vera pena è l’umiliazione politica, per aver lasciato che i ghibellini venissero sconfitti dopo la sua morte, portando la sua famiglia all’esilio.
    Non è plausibile che nelle sue parole ci sia una nota di scusa, come si potrebbe credere dalla sua presunzione, si tratta più di una sfumatura di stupore nel sentire un concittadino.
    Connesso all’eresia epicurea, il suo animo è orientato esclusivamente nella direzione terrena (così è per tutti i dannati).
    - Cavalcante de’ Cavalcanti: si alza interrompendo il discorso tra Dante e Farinata per chiedere informazioni del figlio. Credendo che Dande stia compiendo il suo viaggio per virtù d’intelletto, spera che con lui ci sia anche Guido (grande filosofo fiorentino).
    Usa il passato remoto “ebbe” perché col pensiero ritorna al momento della sua separazione con il figlio
    I dannati hanno la capacità di vedere il futuro, in questo caso entra in gioco un’invenzione strutturale per cui Dante finge che questa capacità svanisca per gli eventi presenti o di un futuro prossimo.
    Il supplizio dei miscredenti non è dato dalle fiamme, ma dall’essere prigionieri della vita mondana; si sentono sconfitti da essa e così pensano lo siano anche i loro cari. Non riescono a vedere l’immortalità dell’anima, ma solo la mortalità della carne.
    - Pietro delle Vigne: (Canto XIII) il suo nome non viene fatto direttamente; cancelliere e protonotaro di Federico II, fu accusato (probabilmente ingiustamente) di tradimento e rinchiuso, si suicidò. Poeta e scrittore, innovatore dello stile “romano”.
    Forte contrasto tra la sua importanza a livello intellettuale e la rappresentazione che Dante ne fa. Nella scena sembrano non esserci presenze umane, appare vuota, si sentono solamente grida di dolore e lamenti. La forma dell’albero va a simboleggiare il rifiuto del corpo umano da parte del suicida, il quale si illude di porre fine a tutto, colpendo quel corpo che gli è stato donato da Dio.
    La descrizione del tragico trasmette efficientemente un senso di disagio e ribrezzo. Il discorso di Pietro prende note difensive, si dichiara innocente e analizza il gesto suicida, benché l’ultimo verso possa sembrare una presa d’atto della violazione commessa è carica di vittimismo e odio.
    I personaggi danteschi hanno la caratteristica di venire colti in azione in nesso concreto con la scena. La scena è spesso plasmata in relazione al tema morale dell’episodio.
    Anche i consiglieri di frode non sono rappresentati con fattezze umane: suicidi-forma vegetale; ladri-forma animale; consiglieri di frode-forma elementale (lingue fi fuoco, XXVI Canto).
    - Ulisse: punito insieme a Diomede, per aver tramato ed eseguito inganni. Primo fra tutti l’agguato del cavallo che portò alla guerra di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a Deidamia e per il furto della statua del Palladio. Ulisse è un ingannatore (del nemico), spietato e sleale, ma non è una persona che mente o tradisce. È intelligente, ma in modo inquieto: nel peccato si presenta come “ingegno”; nei viaggi è sete di conoscenza. È insoddisfatto.
    In questo Ulisse c’è il Dante che modifica le tesi del “Convivio”: il Dante cristiano sa che il suo desiderio di conoscenza verrà saziato dalla visione eterna di Dio; Ulisse il pagano è sospinto nella direzione giusta dal desiderio di sapere, ma attraverso una rotta che non può essere percorsa con “argomenti umani”. Il viaggio di Ulisse è folle, non lo è quello di Dante. Non è comunque una trasgressione e il naufragio non è un castigo, ma un fallimento inevitabile.
    Il significato di “morale” della “Commedia” è comprensibile soprattutto grazie al sistema strutturato da Dante, fatto di rinvii interni, riprese a distanza e collegamenti tematici. I dannati di Dante poi non hanno piena coscienza del male commesso e dalle loro parole non è percepibile nessuna lezione etica.
    Un legame tematico preciso è quello tra Guido e il figlio, il primo è dannato per mancanza di pentimento, il secondo invece lo fa in extremis, salvandosi.
    - Guido da Montefeltro: non ha una fama da rivendicare (a differenza degli altri dannati), i vivi presumono sia salvo poiché si ritirò in convento; si rivela a Dante credendolo un’anima destinata a non uscire più dall’Inferno.
    Guido non è pentito e scarica la colpa (non ingiustamente) su Bonifacio VIII, ma lui non è una vittima, porta odio e rancore perché convinto si sarebbe salvato; non si è mai pentito moralmente.
    - Bonconte: il figlio sconfitto in battaglia e moralmente ferito, rivolge l’ultimo pensiero a Maria, in un totale e sentito pentimento.
    Nella vicenda di Guido il Diavolo prende su San Francesco, beffandosi della scelta fatta dal dannato (il quale sostituì il calcolo alla coscienza morale). Nella vicenda di Bonconte invece l’Angelo di Dio prende l’anima ed è il Diavolo a rimanere a mani vuote, rabbioso.
    - Diavoli: acquistarono anche la funzione di personaggi, umanizzati e trasformati nei carcerieri maligni e grotteschi. I Malebranche ne rappresentano solo una schiera (XXII Canto): Malacoda, Scarmiglone, Alichino (“Satana” dall’antico francese), Calcabrina, Barbariccia, Cagnazzo, Draghignazzo, Ciriatto (da ciro, porco), Graffiacane, Libicocco (venti Libeccio e Scirocco), Rubicante (rosseggiante), Farfarello (folletto in arabo).
    Nella zona del Nono Cerchio si assiste ad una graduale cristallizzazione della figura umana Il gelo raffigura l’estrema degradazione dell’uomo nel peccato. I traditori dei benefattori non hanno più nome e sono totalmente congelati. Nell’Antenora, dove di trova chi ha tradito la patria o il partito, i dannati riescono ancora a muoversi un po’.
    - Ugolino della Gherardesca: appare mentre azzanna la testa del suo nemico (Ruggiero degli Ubaldini), in modo animalesco, entrambi scontano la pena per il tradimento politico, ma il tema centrale è il sentimento d’odio. A causa di questi sentimenti per Ruggero, il Conte Ugolino accetta di narrare la sua storia, la quale è un atto d’odio estremo, di cui lui è rimasto vittima. Persino l’amore per i suoi cari si tramuta in odio senza fine.

    Similitudini:
    La similitudine è il mezzo principale attraverso il quale Dante realizza la correlazione universale, la simbiosi tra i diversi aspetti del mondo e tra umano e naturale. Può essere breve e concentrata, oppure complessa e graduale, creando dei quadri dinamici.
    Paragoni a sfondo psicologico, sono introspezioni.
    Riguardano anche piante e animali, umanizzandoli, e lo stesso accade con gli oggetti.
    Evidente la coerenza fra oggetto dell’elaborazione fantastica e occasione strutturale, ma non è poi vero che a ogni situazione infernale è correlata un’immagine repulsiva.
    Similitudini ipotetiche.
    Ogni similitudine ha una sua sfumatura poetica:
    - La visione del cielo color zaffiro, nella dimensione narrativa corrisponde all’aprirsi del cuore del pellegrino che si è lasciato alle spalle l’Inferno;
    - L’evocazione del nuovo pellegrino, si lega al tema dell’amicizia;
    - La similitudine del “cicognin”, prepara all’atmosfera scolastica del discorso di Stazio;
    - Il vento da cui si disperde “la sentenza di Sibilla”, sentimento di ritorno al mondo da cui si disperde la visione della verità assoluta.

    Il viaggio del letterato:
    Attraverso il personaggio del pellegrino, Dante costruisce una figura di sé che crea un reticolato che unisce l’intera opera. Durante il suo viaggio incontro altri poeti, con i quali si confronta. Il confronto diventa parte della narrazione e istituisce una dimensione critica e autocritica (letteraria) in cui Dante riflette su se stesso. Fondamentale il rapporto d’imitazione con Virgilio e gli altri poeti epici latini. Il rapporto con gli antichi è dichiarato (a inizio opera) e celebrato (Inferno, IV Canto). Dante e Virgilio vengono accolti da questi personaggi, i quali rappresentano (secondo l’ottica della scuola medievale) un sistema di testi. Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Manca Stazio poiché cristiano e quindi salvo.
    Dal XXI Canto alla fine della seconda cantica, Stazio assume addirittura la figura di guida per Dante pellegrino, il quale affronterà il tema della formazione dell’anima umana.
    Dante presenta se stesso come il poeta volgare che meglio è riuscito a entrare in contatto con l’arte dei sommi maestri e perciò si candida all’incoronazione (Purgatorio, XXV Canto), in competizione con i latinisti veneti (Albertino Mussato).
    Stessa ottica può avere il disdegno di Guido Cavalcanti (X Canto). Questo sentimento si riferisce a Virgilio (o in alternativa Dio o Beatrice). La seconda lettura è più vicina alla filosofia di Cavalcanti: rifiuto di un percorso spirituale illuminato dalla verità rivelata. Il disdegno sembra però essere rivolto proprio a Virgilio, sentimento che sarebbe quindi contrapposto al “lungo studi e grande amore” di Dante per Virgilio. E mentre Dante sarebbe cresciuto sviluppando la propria scrittura poetica, Cavalcanti si sarebbe negato questa possibilità.
    Nel Purgatorio Dante riporta le sue rime alla fedeltà della scrittura, rispetto all’ispirazione: l’esperienza del poema come trascrizione di una visione ispirata. Rispetto al “De vulgari eloquentia” la differenza è notevole: gli antichi sono respinti e il nuovo è elogiato.

    Comica Verba:
    Tutte le componenti sono fondamentali nell’orchestrazione stilistica dell’opera:
    - Attitudine argomentativa delle azioni morali;
    - Melodia stilnovistica, significativa per dipingere il mondo edenico;
    - Gusto “petroso” delle perifrasi ardue e dotte, è onnipresente;
    - Sfruttamento di motivi e forme comico-realistiche;
    - Il poema è vario (oggetti e toni) e unitario (ispirazione e ritmo): parallelismi verbali, anafore, antitesi, architetture di pensiero che reggono la logica della terzina o giocano sulla dissonanza fra il ritmo del verso e l’andamento della frase, per poi concentrarsi in un traslato, un’espressione ellittica o una parola culminante;
    - Vocabolo di sonorità; ricerca lessicale che integra dizionario fiorentino, latino, vari volgari italiani e transalpini;
    - Esperimenti comici;
    - Neoformazioni dantesche, perlopiù di tipo parasintetico;
    - Rima come deposito di valori fonici, tecnici e semantici (della tradizione lirica): parole-rima, hanno forte espressività o riferimento strutturale che può essere potenziato dalle altre componenti del terzetto o dal ricorso in luoghi paralleli interni;
    - Rime tecniche (meno utilizzate): frate, derivative, identiche (rarissime);
    - Equivalenze fra suono-ritmo e senso;
    - Figure onomatopeiche; distinzione tra sonorità dolci da quelle “aspre e chiocce”, le ultime sfruttano le atmosfere di degrado;
    - Il verso è unitario e la cesura è attenuata al centro del verso, oppure con lo “squilibrio di accenti di 6° e 7°”; pochi casi di stacco evidente e monotonia voluta;
    - Allitterazione, ha funzione enfatica: amplifica la carica semantica di una parola-guida;
    - Legame tra inizio e fine del verso e allitterazione in clausola (preferiti di Dante).

    Le profezie dell'esilio nell'Inferno:
    Quattro, affidate a personaggi molto diversi tra loro e riguardanti aspetti diversi della vicenda biografica di Dante. Hanno in comune il carattere poco chiaro e oscuro (come anche quelle del Purgatorio).
    1. Ciacco (Canto VI): risponde alle domande di Dante sul destino politico di Firenze e spiega che Bianchi e Neri si combatteranno; i Bianchi prevarranno, ma poi saranno cacciati dai Neri di lì a pochi anni, (Carlo di Valois rovescerà i Bianchi nel 1301 e provocherà indirettamente l'esilio di Dante).
    2. Farinata Degli Uberti (Canto X): la più diretta, profetizza a Dante la sconfitta nella battaglia della Lastra (1304) che impedirà ai fuoriusciti fiorentini di rientrare in città.
    3. Brunetto Latini (Canto XV): l'ex-maestro di Dante, parla in tono più affettuoso ma non meno oscuro, predicendo che le sue buone azioni procureranno l'invidia e l'ostilità dei fiorentini, Bianchi e Neri, ma lui sarà lontano e non potrà subire la loro irosa vendetta.
    4. Vanni Fucci (Canto XXIV): la più enigmatica di tutte, allude alla presa di Pistoia (ultima roccaforte dei Bianchi) da parte del signore di Lunigiana (Moroello Malaspina), paragonato a un fulmine avvolto da nere nubi che scatenerà una tempesta tale da squarciare il cielo e colpire ogni Guelfo Bianco; Moroello sarà evocato da Marte (dio della guerra nonché primo protettore di Firenze).

    Falsatori/falsari:
    Sono i dannati della Quinta Bolgia dell'Settimo Cerchio (Canti XXIX-XXX, Inferno), divisi in quattro schiere:
    1. Falsari di metalli (alchimisti), affetti da una sorta di scabbia lebbrosa che ricopre il loro corpo di croste purulente: Griffolino d'Arezzo (arso vivo come eretico prima del 1272 per aver detto di saper volare) e Capocchio da Siena (arso vivo nel 1293);
    2. Falsari di persona, in preda a follia rabbiosa: Gianni Schicchi dei Cavalcanti (fiorentino, morto prima del 1280, finse di essere Buoso Donati, appena morto) e Mirra (figlia del re di Cipro Ciniro che, innamorata del padre, si finse un'altra donna per giacere con lui e fu poi tramutata in pianta); i due dannati assalgono a morsi Capocchio e Griffolino
    3. Falsari di parola, febbricitanti: la moglie di Putifarre (che da racconto biblico accusò ingiustamente Giuseppe di violenza) e il greco Sinone (che da mito classico aveva ingannato i Troiani con il falso racconto del cavallo di Troia);
    4. Falsari di monete, colpiti da idropisia, col ventre gonfio d'acqua e tormentati dalla sete: Mastro Adamo (forse vissuto a Bologna intorno al 1270 e dipendente dai conti Guidi di Romena i quali lo istigarono a falsificare il fiorino di Firenze e per questo fu arso sul rogo nel 1281; ha il ventre enormemente gonfio ed è descritto come una sorta di liuto).

    Traditori:
    Puniti nel Cocito e divisi in quattro sezioni:
    1. Prima Zona, Caina, i traditori dei congiunti (parenti); incontro con Alberto e Napoleone degli Alberti, Mardret, Focaccia de’ Cancelieri, Sassolo Mascheroni, Camicione e Carlino dei Pazzi;
    2. Seconda Zona, Antenora, i traditori politici (della patria); incontro con Bocca degli Abati, Buoso da Duera, Tesauro di Beccaria, Gianni de’ Soldanieri, Gano, Tebaldello de’ Zambrasi, Ugolino della Gherardesca, Ruggeri degli Ubaldi;
    3. Terza Zona, Tolomea, i traditori dei benefattori;
    4. Quarta Zona, Giudecca, i traditori degli amici.



    La Divina Commedia (sintesi)

    La Divina Commedia è un poema la cui composizione ha data incerta, cominciata in onore di Beatrice forse intorno al 1308 e avvenuta principalmente durante gli anni dell’esilio di Dante, ma sappiamo che nel 1314 l’Inferno era già concluso, che intorno al 1315 il Purgatorio era già diffuso e che nel 1316 è stato scritto il Paradiso, ma diffuso dopo la morte dell’autore.
    Il titolo è stato scelto da Dante tenendo presente le leggi della retorica medievale: ha un inizio tragico e una conclusione positiva.
    È formato da 100 canti, divisi in 3 cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali è divisa in 33 canti (ad esclusione dell’Inferno che ha un ulteriore canto introduttivo). Il metro usato è la terzina di endecasillabi legati da rime incrociate.
    Il poema narra di un viaggio, immaginario, nei mondi ultraterreni del peccato (Inferno), dell’espiazione (Purgatorio) e della salvezza (Paradiso), in compagnia di Virgilio prima, e poi di Beatrice, fino ad arrivare alla conoscenza della Trinità.
    La complessità e la grandiosità del poema sono tali da comprendere teologia, morale, filosofia, riflessione e politica.
    Nella Commedia Dante mescola linguaggio alto e solenne (per descrivere la gioia del Paradiso) con il volgare (per descrivere le bassezze delle anime infernali, le pene più orrende, il degrado dell’Inferno).

    INFERNO
    Canto I: prologo del viaggio dantesco, collocato in una misteriosa regione, forse in oriente. Viene esplicitamente espressa l’ambivalenza tra piano generale e individuale, autore e attore, poeta-uomo e personaggio-poeta, ma anche tra senso letterale e allegorico (l’intreccio tra i diversi piani è continuo). Dante ritorna alla coscienza, risvegliandosi dal torpore (probabilmente indotto dal peccato) in cui si ritrova quando perse la via della rettitudine (buona, la via di Cristo). Lo smarrimento non tanto una condizione individuale (non è la cupidigia ad essere la sua tentazione personale, quanto la superbia), bensì del genere umano (in quel periodo). La manifestazione più grande di cupidigia è la corruzione della Chiesa.
    - Selva Oscura: buia foresta (letteralmente), il labirinto del peccato e rispetto a Dante indica il suo traviamento individuale (valore allegorico);
    - Colle: vita virtuosa e felicità terrena, identificato come la montagna dell’Eden;
    - Raggi del Pianeta: il Sole, la luce divina (che illumina la retta via), Dio steso;
    - Tre Fiere: le tentazioni diaboliche che impediscono il ritorno sulla retta via
    1. lonza, simbolo di lussuria, felino non ben identificato, dalla pelle maculata probabilmente simile ad un leopardo;
    2. leone, simbolo di superbia, ma anche di violenza;
    3. lupa, simbolo di avidità, la più pericolosa delle tre fiere.
    - Virgilio: maestro di “bello stile”, guida e simbolo della ragione umana;
    - Profezia del Veltro: cane da caccia, figura opposta alla lupa, allude a colui che in futuro riporterà giustizia e pace.
    Canto II: Virgilio informa Dante di essere stato inviato da Beatrice, mossa da S. Lucia e dalla Madonna per salvarlo. Il discorso di Dante a Virgilio ha un tono solenne, in contrapposizione allo squallido paesaggio. Diverso il registro alla discesa di Beatrice nel Limbo (stesso timbro della Vita Nova, ma più umana e divina.
    Canto III: introduce le prime immagini effettive dell’Inferno con relative impressioni. Il tema d’avvio è Medievale, dato dall’eternità delle pene infernali, volute da giustizia divina
    - Porta dell’Inferno: ingresso di Dante e Virgilio;
    - Ignavi: “chi in vita non ebbe né vergogna né lode”, colpevoli d’indolenza o di viltà di fronte alle responsabilità del proprio stato o della vita, qui sono respinti sia da Dio sia dal diavolo, eternamente in corsa dietro a una bandiera senza vessillo, e tormentati da insetti e vermi. Spicca la figura di Celestino V (indirettamente compreso);
    - Acheronte: uno dei quattro fiumi infernali che scorre tra l’Antinferno e il Limbo;
    - Caronte: nocchiere che raccoglie le anime salve e le trasporta fino al Purgatorio, è la prima delle grandiose statue in movimento dell’Inferno.
    Canto IV:
    - Limbo: Primo Cerchio dell’Inferno, vi risiedono le anime di innocenti che non ebbero vera fede, tra cui bambini e anche Virgilio, e sono destinati in eterno a una condizione intermedia, né disperati né speranzosi;
    - Nobile Castello: nella seconda zona del Limbo, simbolo di magnanimità costruita attraverso le virtù morali e intellettuali (rappresentati dalle sette mura e dal bel fiumicello), vi risiedono gli “spiriti magni” dei poeti, dei savi e degli eroi antichi.
    Canto V: entrata nel Secondo Girone. L’anafora è tra i tratti che caratterizzano la prima parte di questo canto, la quale rende l’idea della tempesta, così come la sinestesia del verso 28 (“loco d’ogne luce muto”) rende l’idea delle tenebre. Fra i connotati stilistici anche l’uso che Francesca fa della prima persona plurale, parlando a nome suo e di Paolo
    - Minosse: demonio e ministro di Dio, il quale assegna la pena in base al numero dei giri della sua coda;
    - Lussuriosi: anime accomunate dal fatto di essere appartenute a personaggi morti in modo violento, a causa dell’amore (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena moglie di Menelao, Achille, Paride, Tristano), la loro pena è quella di essere sbattuti dal vento; incontro con Francesca da Rimini e Paolo Malatesta (due amanti, che in vita furono cognati e questo amore li portò alla morte per mano del marito di lei, amore sbocciato leggendo il libro che raccontava l’amore tra Lancillotto e Ginevra).
    Canto VI: si apre il Terzo Cerchio e il primo dei tre canti “politici” (uno per cantica)
    - Golosi: immersi in una fanghiglia fetida, esposti alle intemperie e dilaniati da Cerbero; incontro con Ciaccio (forse Giacomo, uomo di corte della Firenze del 200 il quale predice a Dante il futuro politico di Firenze e gli dà informazioni su concittadini);
    - Cerbero: il cane con tre teste, guardiano dei golosi, un demonio strumento di giustizia divina;
    - Condizione dei dannati dopo il Giudizio Universale e la resurrezione della carne.
    Canto VII: Quarto e Quinto Cerchio. Il primo verso (“Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”) è un verso cifrato non volutamente incomprensibile, allusivo ad una minaccia nei confronti di Dante che sta infrangendo le leggi dell’Inferno. Nel canto prevale un tono solenne, di contemplazione che costituisce la chiave tematica di passaggio al motivo filosofico della Fortuna (un’intelligenza che amministra i beni terreni secondo giudizio divino)
    - Pluto: demone guardiano che presiede al cerchio degli avari e dei prodighi;
    - Avari e Prodighi: coloro che in vita sperperarono i loro averi, resi irriconoscibili dal loro peccato e condannati a spingere pesanti pietre, divisi in due schiere che procedono lungo il Cerchio, in senso opposto, andando a sbattere gli uni agli altri; fra loro chierici, papi e cardinali;
    - Stigia: (Stige) secondo fiume dell’Inferno e come gli altri ha origine dalle lacrime che scorrono dalle fessure del gran Veglio di Creta;
    - Iracondi: immersi nello Stige, si percuotono arrivando fino a sbranarsi a vicenda;
    - Accidiosi: tanto immersi nello Stige al punto da non essere visibili; la cantilena che ripetono, e che riassume il loro peccato, fa gorgogliare l’acqua.
    Inferno Canto VIII: Quinto Cerchio, lungo il paludoso Stige. Vige una perpetua tensione, con vertiginosi cambi di scena, dialoghi rapidi e scene impetuose. Il primo canto di costruzione drammatica in accordo con un linguaggio teso ed ellittico
    - Flegiàs: il secondo nocchiere infernale e custode del Quinto Cerchio, simbolo dell’ira;
    - Filippo Argenti degli Adimari: (tra gli iracondi) fu cavaliere fiorentino della generazione di Dante e suo diretto avversario (si oppose al suo ritorno dopo l'esilio e pare che la sua famiglia si sia impadronita di alcuni beni di Dante), di lui si racconta anche nella novella di Boccaccio di Ciacco e Biondello, famoso per la sua prepotenza e irancondia; viene dilaniato e fatto a pezzi dagli altri iracondi dopo aver provato ad afferrare Dante ed essere stato fermato da Virgilio.
    Canto IX: sotto le mura della città di Dite, i diavoli cercano di impedire il passaggio dei due poeti, ma devono arrendersi al Messo celeste, angelo e volontà di Dio (il quale unisce simbolicamente il divino e l’umano), che li obbliga ad aprire le porte. Il canto si presenta come una continuazione del precedente
    - Dite: citta all'aspetto islamico, con moschee, torri e mura rosse e infuocate; circondata dalla palude Stigia e difesa da diavoli; vi vengono puniti gli eretici;
    - Tre Furie: (Erinni) Megera, Aletto e Tesifone (tra i demoni che presidiano Dite) figlie di Acheronte e della Notte, per Dante aralde di Medusa e ne simboleggiano i vizi; queste evocano Medusa per pietrificare Dante; alcuni ci vedono in questa apparizione tre specie di ira punite nello Stige, chi la violenza e la malizia, il ricordo del male e il dubbio religioso.
    Canto X: ancora nel Sesto Cerchio, nella città di Dite. L’episodio ha un taglio teatrale, caratterizzato da termini fisici. Tema politico
    - Eretici: i capi delle sette eretiche e i seguaci (citati solo gli epicurei), anime che giacciono dentro delle tombe di pietra infuocate e soffrono in misura alla gravità del peccato; incontro con Farinata (Manente degli Uberti, uno dei protagonisti della vita politica fiorentina, di due generazioni anteriore a Dante, capo dei Ghibellini, scacciò i Guelfi, ma dopo la morte di Federico II fu esiliato, guidò la battaglia di Montaperti) e Cavalcante Cavalcanti (guelfo e avversario di Farinata, estromesso da Firenze dopo Montaperti);
    - Montaperti: (“L’orrenda strage che mutò l’Arbia in un rosso fiume di sangue”) battaglia in cui i fiorentini furono sconfitti dall’esercito ghibellino guidato da Farinata;
    - Profezia di Farinata: segno di destini comuni tra Farinata stesso e Dante, i quali hanno ideologie politiche differenti ma uguale amore per la patria; gli predice l’esilio con toni duri e oscuri.
    Canto XI: ancora nel Sesto Cerchio, fra gli eretici, sosta davanti alla tomba di Papa Anastasio. Virgilio spiega a Dante l’ordinamento dell’Inferno (morale e distributivo). Nel Settimo cerchio è punita la violenza; nell’Ottavo la frode contro chi non si fida; nel Nono i traditori di chi si fida. Canto di transizione, di modello dottrinario e didascalico, lascia trapelare le straordinarie facoltà sintetiche di Dante
    Canto XII: Settimo Cerchio, Primo Girone. Lunghe descrizioni, necessarie a dare un aggancio realistico del panorama
    - Minotauro: guardiano del Settimo Cerchi, simbolo di violenza poiché sia umano che bestia; inizialmente scambia Dante per Teseo, ma Virgilio lo ammonisce dicendogli che è lì per vedere le pene dei dannati, non è stato mandato da Arianna;
    - Flegetonte: uno dei quattro fiumi infernali, sorvegliato dai centauri e fatto di sangue bollente nel quale sono immersi predoni e assassini, in misura al peccato commesso;
    - Violenti: contro il prossimo nella persona e negli averi (tiranni e omicidi, guastatori e predoni);
    - Centauri: sorvegliano il fiume Flegetonte e hanno il compito di saettare i dannati che emergono più del dovuto dalle acque (nominati Nesso, Chirone e Folo, in seguito anche Caco); aiutano Dante e Virgilio a guadare il fiume.
    Canto XIII: Settimo Cerchio, Secondo Girone. Il paesaggio muta, si passa all’immobilità di una boscaglia deformata.
    - Violenti: contro se stessi nella persona e negli averi (suicidi e scialacquatori):
    1. Suicidi: trasformati in piante, danno vita ad una selva lamentosa e selvaggia, che non da frutti, ma è fatta di spine velenose, sulle fronde nidificano le Arpie; incontro con Pier della Vigna (cancelliere e ministro dell’imperatore alla corte siciliana, a lui estremamente fedele, accusato per invidia di tradimento e condannato al carcere, morì da suicida);
    2. Scialacquatori: corrono nudi tra la selva dei suicidi, inseguiti da cagne nere che, una volta raggiunti, li fanno a brandelli; incontro con Lano da Siena e Iacopo da Sant’Andrea (il primo riesce a sfuggire alle cagne l’altro no).
    Canto XIV: Settimo Cerchio, Terzo Girone. Il sabbione rovente sotto la pioggia di fuoco, dove le anime sono sparse, alcune supine (bestemmiatori) altre siedono raccolte (usurai) altre ancora camminano (sodomiti). Il canto si lega a quello precedente, ma scinde a causa della diversa impostazione di ambiente (colori più accesi, prima grigio ora rosso fuoco). Tre le sequenze fondamentali: paesaggistica, psicologica (Capaneo) e mitico-simbolica (allegoria del Veglio). Numerosi i riferimenti alla letteratura e ai miti classici.
    - Violenti: contro Dio nella persona (bestemmiatori); incontro con Capaneo (uno dei sette re greci che fecero la guerra contro Tebe, osò sfidare Giove fino a provocarne l’ira);
    - Allegoria del Veglio di Creta: Virgilio spiega che a Creta sorge una montagna (Ida) in passato ricca di corsi d'acqua e foreste, un tempo nascondiglio di Giove. Al suo interno si erge un gran vecchio (con la testa in oro, il petto e le braccia d'argento, il ventre di rame, le gambe e il piede sinistro di ferro e il piede destro di terracotta) che volta le spalle a Damietta e guarda dritto verso Roma. Ogni parte del suo corpo - eccetto la testa - è piena di fessure da cui escono lacrime le quali forano la roccia ai piedi della statua. Le lacrime scendono all'Inferno e formano i fiumi infernali.
    Canto XV: Settimo Cerchio, Terzo Girone. Uno dei Canti più autobiografici del poema, dominato dalla figura di Brunetto Latini e il suo rapporto con Dante
    - Violenti: contro Dio nella natura (sodomiti); incontro con Brunetto Latini (non ci sono fonti della sua omosessualità oltre questa e un accenno del Villani che lo definisce “mondano uomo”; l'episodio è un'affettuosa rievocazione del suo antico maestro, ma anche una ferma condanna della sua condotta peccaminosa; si congratula con l'antico discepolo del fatto che i suoi meriti letterari e morali);
    - Profezia dell’Esilio: Brunetto dichiara che Dante non può fallire nella sua missione letteraria e politica, se segue la sua stella e se lui ha ben giudicato quando era in vita. Tuttavia, i Fiorentini, sono gente avara, invidiosa e superba, si faranno nemici del poeta a causa delle sue buone azioni e Dante deve quindi tenersi lontano dai loro costumi. Il suo destino è così onorevole che entrambe le parti politiche vorranno sfogare il loro odio su di lui, ma non ne avranno la possibilità e saranno costretti a rivolgere il proprio astio su loro stessi.
    Canto XVI: Settimo Cerchio, Terzo Girone, in una seconda schiera di sodomiti composta da uomini politici; incontro con Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci. Diverso il riconoscimento di Dante come concittadino confronto al Farinata (prima la pronuncia, ora la foggia dell’abito), caratterizzato da un dialogo più monotono e concitato, cifrata l’ammirazione per la patria, che però ne è la musa. Dialogo sulla corruzione di Firenze in cui Dante non è interessato a dare una raffigurazione nostalgica dei suoi ideali, ma a polemizzare contro chi ha distrutto la coesione economica di Firenze. Calscata del Flegetonte. L’ultima parte del canto sembra scindersi dal resto e connettersi al Canto successivo, prendendo toni favolosi con il getto della corda, la quale ha il valore simbolico ricollegabile alla lonza (con la quale Dante voleva usarlo) e quindi per dominare la lussuria o forse la frode visto che è rappresentata da Gerione. Imminente l’arrivo di qualcosa di sovrannaturale, la mostruosa figura che risale l’abisso quasi nuotando sull’aria (una delle apparizioni più infernali, Gerione)
    Canto XVII: Settimo Cerchio, Terzo Girone. Canto complesso che si regge sui due canti che lo precedono, ma che possiede atmosfera sia magico-rituale che realistico-simbolica data da Gerione (in lui si incarna la simbologia della frode). Si mescolano elementi classici, biblici, medievali, realistici, e tradizioni orali e figurative
    - Gerione: a guardia delle Malebolge, mostro con la faccia d'uomo giusto, ha il busto di serpente, due zampe artigliate e pelose che arrivano alle ascelle, il dorso e il petto dipinti con nodi e rotelle simile ai drappi persiani, una coda biforcuta che termina con un pungiglione avvelenato come quello di uno scorpione (Dante lo descrive come una “sozza imagine di froda”);
    - Violenti: contro Dio nell’arte (il lavoro, usurai): seduti sul sabbione, portano al collo una borsa, simbolo della loro colpa, con lo stemma della famiglia cui appartennero.
    Canto XVIII: Ottavo Cerchio, Prima e Seconda Bolgia (descrizione delle bolge). Lunga l’introduzione topografica del Cerchio fissa le linee strutturali del più vasto e articolato scomparto infernale, composto da dieci bolge (Malebolge) e altrettante categorie di peccatori, assume la fisionomia di un carcere della disperazione. La rappresentazione dei suoi primi abitanti, da un lato gli sfruttatori di donne e i seduttori, dall’altro i lusingatori e gli adulatori. Viva la vena comica di Dante, fatta di rime spesse e acuminate
    - Prima Bolgia (ruffiani e seduttori): i peccatori, nudi e su due file parallele (i ruffiani sul margine esterno e i seduttori su quello interno), girano in direzioni opposte, frustati da diavoli cornuti; incontro con Venedico Caccianemico (condusse la sorella a soddisfare le voglie di Òbizzo d'Este);
    - Seconda Bolgia (adulatori): fraudolenti in quanto ingannarono i potenti con le loro lusinghe per fini personali, immersi nello sterco e intenti a colpirsi con le loro stesse mani; incontro con Alessio Interminelli e Taide (la prostituta).
    Canto XIX: Terza Bolgia. Maledizione a Simon mago e invettiva contro Niccolò e tutti i papi simoniaci da parte di Dante, il quale è trattenuto solo dal rispetto per il ruolo di Papa dall’usare parole più dure, poiché la loro avarizia ha sovvertito ogni giustizia terrena
    - Simoniaci: coloro che nel facevano mercato delle cose sacre (soprattutto indulgenze e cariche ecclesiastiche), conficcati a testa in giù all’interno di buche, con le gambe levate e delle fiammelle che gli lambiscono le piante dei piedi; incontro con Papa Niccolò III (predice la venuta di Bonifacio VIII e Clemente V, anch’essi simoniaci).
    Canto XX: Quarta Bolgia. Canto impostato come una rubrica didascalica, incentrato tutto sugli idovini. Angosciosa la vista dei dannati, tanto da portare Dante ad una crisi di sconforto. Origine di Mantova
    - Indovini: fraudolenti in quanto ebbero la pretesa di vedere il futuro che invece è noto solo a Dio, hanno la figura totalmente stravolta (hanno il viso rivoltato all'indietro, camminano a ritroso e piangono versando lacrime sulla schiena e sulle natiche), vollero vedere troppo avanti e ora sono costretti a guardare solo indietro; incontro con Anfiarao (uno dei sette re contro Tebe, che grazie alle sue doti divinatorie sapeva che vi sarebbe morto e si nascose in un luogo noto solo alla moglie), Tiresia (indovino che esercitò le sue arti nella guerra a Tebe, diventò donna colpendo due serpenti che si accoppiavano e tornò uomo dopo sette anni colpendo gli stessi serpenti), Arunte (indovino etrusco il quale aveva predetto la guerra civile e la vittoria di Cesare), Manto (personaggio dell’Eneide avrebbe propiziato la partenza della flotta greca dall'Aulide per Troia).
    Canto XXI: Quinta Boglia. Dante fu mandato in esilio perché falsamente accusato di baratteria, motivazione dell’insistente attenzione che ripone in questo Canto, seppure sembri al contempo estraniarsi. Combina elementi figurativi, il volgare e la vicenda scenica; scena vivace, ironica, grottesca e infernale.
    - Barattieri: colpevoli di aver usato le loro cariche pubbliche per arricchirsi attraverso la compravendita di provvedimenti, permessi, privilegi (reato di concussione); sono immersi nella pece bollente e sorvegliati dai Malebranche i quali colpiscono i dannati con bastoni uncinati se provano a emergere dalla pece;
    - Malebranche: i diavoli custodi della Bolgia (da Malebolge e branche, gli artigli di cui sono dotati), neri, alati, armati di bastoni uncinati con cui costringono i dannati a stare immersi nella pece bollente (Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello e Rubicante).
    Canto XXII: Quinta Boglia. Seguito del canto precedente, continua la marcia con i diavoli; incontro con Ciampolo di Novara (il barattiere che finisce tristemente tra le grinfie dei Malebranche e riesce a sfuggire loro con un inganno). Li linguaggio è crudo, i toni aspri e l’atmosfera comico-realistica, arricchito con metafore animalesche
    Canto XXIII: Sesta Bolgia. Una sorta di pausa narrativa tra l’introduzione dei Malebranche e i canti che seguono, divisibile in tre parti (fuga dai diavoli, gli ipocriti, lo svelamento dell'inganno di Malacoda)
    - Ipocriti: fraudolenti in quanto mostrarono di comportarsi in modo diverso dalle loro reali intenzioni, specie in ambito politico, costretti a indossare dei pesanti mantelli con cappuccio basso, fatti d’oro all'esterno e di piombo all'interno, che li costringono a camminare lentamente e gli provocano dolore; incontro frati godenti Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò (bolognesi e chiamati a Firenze a ricoprire la carica di podestà per mettere pace tra Guelfi e Ghibellini, Catalano presenta se stesso e il compagno di pena a Dante rivelando l'ipocrisia dimostrata a Firenze di cui sono ancora visibili i segni);
    - Sinedrio Giudaico: crocifisso al suolo Caifas (sommo sacerdote che consigliò ai Farisei di far crocifiggere Gesù) e insieme a lui, allo stesso modo, il suocero Anna e tutti i membri del concilio, la cui pena consiste nell'essere calpestati a terra da tutti gli altri dannati che percorrono il fondo della Bolgia.
    Canto XXIV: Settima Bolgia. La similitudine meteorologica del canto, che si apre con il sole, si bilancia con quella finale, in cui un fulmine si presenta avvolto da dense nuvole, seppur diversa nella trama e nei compiti espressivi, segue un canone retorico medievale (immagini naturalistiche, metafore scientifiche, realismo domestico nel pastorello, nelle rime) a cui si salda il ritmo ansante e pesante del percorso verso la Bolgia successiva.
    - Ladri: corrono nudi in mezzo a serpenti che legano loro le mani dietro la schiena, per poi subire delle mostruose trasformazioni; incontro con Vanni Fucci (sconta il furto degli arredi sacri compiuto al Duomo di Pistoia, falsamente attribuito ad altri);
    - Profezia di Vanni Fucci: Pistoia per prima caccerà i Guelfi Neri, poi Firenze farà lo stesso coi Bianchi, poco dopo una tempesta uscita dalla Lunigiana conquisterà Pistoia e con essa l'ultimo caposaldo dei Bianchi fiorentini; conclude precisando che ha detto tutto ciò per fare del male a Dante (simile aveva fatto anche Farinata, ma qui siamo molto lontani dalla sua compostezza e dignità).
    Canto XXV: ancora nella Settima Bolgia, domina ancora la figura di Vanni Fucci, il quale bestemmia e altrettanto violente le serpi che lo assalgono, incenerendolo, è il castigo divino per il quale Dante sembra provare simpatia. Un altro ladro subisce invece una metamorfosi in serpente, più spaventosa e d’impatto emotivo, è lenta, progressiva, innaturale; nel secondo caso invece un uomo e una serpe (due diversi organismi)
    Canto XXVI: Ottava Bolgia (si presenta come un mare di fiammelle). L’apertura commenta il Canto precedente, per poi passare alla Bolgia successiva. La rinuncia alla frode, non solo in politica, ma come regola di vita generale. Il significato etico-religioso del castigo si riscontra nella lessicografia medievale, dove l’astuzia e collegata al calore (calliditas-caliditas) e all’immagine di una fiamma che brucia internamente. Il colloquio è nobile e sostenuto. La narrazione del viaggio di Ulisse è estranea alla tradizione omerica e deriva probabilmente da un rimaneggiamento tardo dell'Odissea, che Dante non poteva leggere nel testo originale; l'Ulisse dantesco è comunque simile a quello classico, dotato di insaziabile curiosità e abilità di linguaggio
    - Consiglieri di frode: spiriti fasciati da lingue di fuoco; la colpa di questi dannati è legata alla conoscenza e all'uso della parola per ingannare, un peccato è di natura intellettuale a cui Dante si sente vicino (infatti riconosce in parte la natura della pena); incontro con Ulisse e Diomede (una fiamma bicorne, insieme sia nel peccato che nella pena; puniti per l'inganno del cavallo di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a Deidamia e per il furto della statua del Palladio; Ulisse che narra di aver varcato le colonne d’Ercole fino a un monte - il Purgatorio - venendo inabissato da una tempesta; Ulisse rappresenta l’audacia umana - “Fatti non foste a viver come bruti” - e il desiderio di conoscenza)
    Canto XXVII: Ancora nell’Ottava Bolgia. Incontro con Guido da Montefeltro (capitano di ventura poi pentito, narra di essere stato ingannato da Bonifazio VIII e indotto a peccare e di essere stato portato all’Inferno da un diavolo nonostante la presenza di San Francesco). Situazione politica della Romagna (al momento non è in guerra: Ravenna è nella stessa situazione sotto la signoria dei Da Polenta che domina fino a Cervia; Forlì è dominata dagli Ordelaffi; i Malatesta si sono impadroniti di Rimini; Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani; Cesena oscilla libertà e soggezione alla tirannide). Dante aveva espresso ammirazione e rispetto per Guido nel Convivio, lodando il suo pentimento, cosa che contrasta con la sua collocazione nell’Inferno - accade altre volte che Dante corregga opinioni precedentemente espresse - creando un forte contrasto tra la vita di Guido sino al suo farsi francescano e le vicende successive, ovvero tra l'uomo d'armi e il politico, e l'uomo di Chiesa
    Canto XXVIII: Nona Bolgia. Dante, in apertura, confessa l’incapacità di descrivere la visione orrenda di questa penultima Bolgia, un invito al lettore a considerare lo sforzo compiuto nel mettere in versi una scena tanto ripugnante. Tenta di escludere ogni partecipazione emotiva dalla scena, frenando le interferenze personali, sviluppandosi in statica fissità descrittiva quando si giunge all’incontro con Maometto. Disegno etico-politico che sostiene la tesi che passa dagli scismi religiosi alla narrazione dei tradimenti civili della cronaca italiana, da Cesare e la nascita dell’Impero Romano alla divisione di Guelfi e Ghibellini a Firenze
    - Seminatori di scandalo: mutilati da un diavolo armato di spada, così essi hanno creato lacerazioni in campo politico, religioso e sociale, prima di compiere un giro completo della Bolgia e tornati davanti al demone le ferite si sono rimarginate; incontro con Maometto (tagliato dal mento all'ano e paragonato a una botte priva del fondo, spiega a Dante la natura della pena) e Alì (tagliato dal mento alla fronte, similarmente a Maometto, poiché ne proseguì l’opera);
    - Profezia su Fra Dolcino: Maometto dice a Dante di ammonire fra Dolcino a procurarsi molti viveri, se non vorrà che la neve lo costringa ad arrendersi ai Novaresi che lo assedieranno;
    - Avvertimento di Pier da Medicina: personaggio di cui non si sa nulla se non quanto dice di lui Dante, fu originario della Pianura Padana, predice la proditoria uccisione di Guido del Cassero e Angiolello da Carignano;
    - Curione e Mosca dei Lamberti: il primo è il dannato che si duole di aver visto Rimini, che fu scacciato da Roma e si unì a Cesare ai tempi della guerra con Pompeo e esortò il condottiero a varcare il Rubicone; il secondo, con moncherini al poso delle mani, ha la colpa di aver deciso l'uccisione di un nemico della sua consorteria, cosa che scatenò gravi conseguenze per i Toscani, compresa la scomparsa della sua famiglia da Firenze;
    - Bertan de Born: privo della testa, che tiene in mano per i capelli come fosse una lanterna; seminò discordia tra il re d'Inghilterra Enrico II e il figlio, Enrico III, e dal momento che egli ha diviso persone così unite ora procede col capo separato dal corpo
    Canto XXIX: Decima Bolgia, ultima Bolgia infernale. Toni realistici si contrappongono a situazioni grottesche
    - Geri del Bello: (ancora nella Nona Bolgia) indica minacciosamente col dito Dante, il quale poi spiega che costui gli rimprovera il fatto che la sua morte violenta non è stata ancora vendicata da un membro della sua consorteria, perciò se ne è andato senza rivolgergli la parola;
    - Falsatori: falsatori di metalli (alchimisti), affetti da una sorta di scabbia lebbrosa che ricopre il loro corpo di croste purulente; incontro con Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena (entrambi arsi vivi, il primo anche se non alchimista)
    Canto XXX: ancora nella Decima Bolgia, si chiude la parentesi sui falsatori. Architettura simmetrica, classico-mitologica. Rime difficili e i suoni aspri, come nella migliore tradizione della poesia comica. Lo stile torna ad elevarsi negli ultimi versi, con il linguaggio raffinato di Virgilio, che usa termini ricercati, l'episodio di Mastro Adamo e Sinone viene diviene trascurabile
    - Falsatori: falsatori di persona, in preda a follia rabbiosa; incontro con Gianni Scricchi (fiorentino, finse di essere Buoso Donati, appena morto) e Mirra (figlia del re di Cipro si finse un'altra donna per giacere con il padre), i quali assalgono e azzannano Capocchio e Griffolino;
    - Falsatori: falsatori di moneta, colpiti da idropisia; incontro con il Maestro Adamo (dipendente dai conti Guidi di Romena i quali lo istigarono a falsificare il fiorino di Firenze e per questo fu arso sul rogo);
    - Falsatori: falsatori di parola, febbricitanti; incontro con la moglie di Putifarre (che da racconto biblico accusò ingiustamente Giuseppe di violenza) e il greco Sinone (che da mito classico aveva ingannato i Troiani con il falso racconto del cavallo di Troia); rissa tra Sinone e Maestro Adamo
    Canto XXXI: passaggio tra l’Ottavo e il Nono cerchio. Il canto si apre con toni volutamente spenti, quasi a smorzare il ritmo concitato che aveva coinvolto anche Dante.
    - Torri Infernali: i giganti che inizialmente vengono scambiati per torri da Dante;
    - Giganti: collocati intorno al pozzo che divide l’Ottavo dal Nono Cerchio, non come figure demoniache ma probabilmente dannati associati al peccato di tradimento; confitti nella roccia fino ai fianchi; incontro con Nembrot (accusa se stesso, poiché è colui che tentò di arrivare in cielo con la Torre di Babele, motivo per cui oggi si usano linguaggi diversi), Fialte (incatenato, un braccio legato davanti e l'altro dietro la schiena, e avvolto dal collo in giù per cinque giri almeno fin dove visibile; volle sperimentare la sua forza contro Giove), Briareo (non è visibile) e Anteo (fuoriesce dalla terra per 7 metri circa senza la testa, depone i due poeti sul fondo della ghiaccia di Cocito);
    - Cocito: lago di Cocito, uno dei quattro fiumi infernali nella cui ghiaccia sono imprigionati i traditori, divisi in quattro zone (Caina, Antenòra, Tolomea, Giudecca) concentriche a seconda della gravità del peccato commesso; il centro corrisponde al centro della Terra e vi è conficcato Lucifero, è lo sbattere delle sue ali che produce il vento che ghiaccia le acque
    Canto XXXII: Nono Cerchio. Primo dei tre canti dedicati ai traditori. Si apre con una dichiarazione di poetica da parte di Dante, che vorrebbe disporre di un linguaggio adeguatamente aspro per descrivere il fondo dell'Universo, invoca così l’aiuto delle Muse (segna un innalzamento dell’impegno poetico). Rime aspre, suoni duri e sgradevoli, così come lo sono i temi trattati. Per la prima volta Virgilio non proferisce parola. Netta la prevalenza di dannati contemporanei di Dante, il quale diventa protagonista dell’episodio
    - Traditori: divisi in quattro sezioni:
    1. Prima Zona, Caina, i traditori dei congiunti (parenti); imprigionati nel lago ghiacciato di Cocito, dal quale emerge solo la loro testa rivolta all'ingiù; incontro con Alberto e Napoleone degli Alberti (uno guelfo e l’altro ghibellino, si scontrarono uccidendosi a vicenda; sono confitti nel ghiaccio uno di fronte all'altro, così vicini che i capelli si mischiano, le loro lacrime gocciolano fino alle labbra congelando e chiudendogli gli occhi, cozzano le teste l'una contro l'altra per rabbia come montoni), Mardret, Focaccia de’ Cancelieri, Sassolo Mascheroni, Camicione e Carlino dei Pazzi;
    2. Seconda Zona, Antenora, i traditori politici (della patria); imprigionati nel lago dal quale emerge solo la loro testa; incontro con Bocca degli Abati (si dice che tagliò la mano di Iacopo de' Pazzi facendo così cadere la bandiera dei cavalieri fiorentini, venne esiliato nel 1266, probabilmente non c'erano prove certe del suo tradimento, ma Dante lo accusa e tratta duramente, Bocca denuncia Buoso da Duera, Tesauro di Beccaria, Gianni de’ Soldanieri, Gano e Tebaldello de’ Zambrasi), con Ugolino della Gherardesca e Ruggeri degli Ubaldi.
    Canto XXXIII: ancora nel Nono Cerchio. Canto una volta letto in chiave politica, per le crude lotte toscane, ora ha acquisito un’accezione drammatica. Anche Dante diventa spettatore della recitazione continua del Conte che si rivela un personaggio pieno d’amore per i suoi cari e carico d’odio per il nemico. Dante si abbandona a una violenta invettiva contro Pisa, definendola la vergogna d’Italia. Allo stesso modo ne pronuncia un’altra contro i Genovesi, estranei alle buone usanze e pieni di vizi, che dovrebbero essere dispersi nel mondo. L’inizio è chiaramente collegato al Canto precedente ed è poi diviso in due parti quasi equivalenti, dedicate al Conte Ugolino e a Frate Alberigo, chiuse entrambe in modo simmetrico da due invettive
    - Conte Ugolino: (Ugolino della Gherardesca) tradizionalmente ghibellino tramò in favore dei Guelfi, fu allontanato da Pisa e poi nuovamente invitato nella città fu catturato e condannarlo a morire di fame assieme a figli e nipoti
    - Traditori: Terza Zona, Tolomea, i traditori degli ospiti; imprigionati nel ghiaccio col volto all’insù, questi piangono, ma le lacrime gli si congelano nelle orbite degli occhi formando come delle visiere di cristallo che non gli permettono di sfogare il dolore; incontro con Frate Alberigo dei Manfredi (ancora in vita, spiega che non ha idea chi sia a governare il suo corpo sulla Terra, capita che l'anima destinata alla Tolomea vi finisca prima di giungere alla fine naturale della vita poiché appena l'anima commette il tradimento lascia il corpo e il suo posto è preso da un demone) e Branca Doria (anche lui ancora vivo, ma già imprigionato nei Cocito da molti anni)
    Canto XXXIV: Ultimo cerchio. Dante stesso rimane muto e impassibile. Nella seconda porzione narrativa la meraviglia attenua la partecipazione dei personaggi, che lasciano scivolare la preoccupazione. Lasciano l’Inferno
    - Lucifero: essere peloso e di grandezze smisurate, conficcato a metà nel ghiaccio, è dotato di una testa con tre facce (quella al centro è rossa e le altre due le si uniscono dalle spalle e dietro al capo, la destra è di colore giallastro, la sinistra ha il colore scuro degli abitanti dell'Etiopia) e gigantesche ali, il cui movimento produce il ghiaccio che fa congelare il lago di Cocito; il mostro piange dai sei occhi e le sue lacrime gocciolano lungo i suoi tre menti, mescolandosi a una bava sanguinolenta; ricco di elementi iconici (personificazione allegorica della passione che ottunde l’intelletto, le tre facce cancellano la volontà, le ali simboleggiano la forza bruta priva di intelligenza, rabbia sinistra e imponente)
    - Traditori: Quarta Zona, Giudecca, i traditori dei benefattori; maciullati ognuno in una bocca di Lucifero; Giuda Iscariota (al centro, ha la testa dentro la bocca e le gambe pendono di fuori, non solo dilaniato dai denti, ma la sua schiena viene graffiata e spellata dagli artigli) Giunio Bruto (pende dalla faccia nera, si contorce e non dice nulla) e Cassio Longino (pende dalla faccia giallognola);
    - Descrizioni Cosmologiche (origine dell’Inferno): lezione svolta in due tempi, attraverso uno schema scolastico (domande e risposte); Lucifero, ribellatosi a Dio per superbia e invidia, fu sconfitto dall'Arcangelo Michele e precipitando dal Cielo al centro della Terra si trasformò in un orrendo mostro; secondo Dante al contatto con Lucifero la Terra si sarebbe ritratta dando origine alla voragine infernale nell'emisfero nord, alla montagna del Purgatorio in quello sud. Dante, infatti, disceso Lucifero e confuso dal fatto che il mostro sia a testa in già e che sia mattina seppur passato poco tempo, pensa di essere ancora nell'emisfero boreale, mentre quando i due hanno oltrepassato il centro della Terra, sono passati nell'emisfero australe (opposto a dove visse e fu crocifisso Gesù).

    PURGATORIO
    Canto I: Dante e Virgilio si ritrovano sulla spiaggia del monte Eden al termine della notte, il cui custode è Catone (Dante ha visto nel suo suicidio un atto di liberazione dal male) che ordina che il protagonista venga deterso con la rugiada e cinto di giunco.
    Canto II: Un angelo conduce lì un gruppo di anime salve, tra cui Dante incontra l’amico Casella (musicista) il quale intona “Amor che nel mente mi ragiona” facendo tardare anche gli altri, che restano incantati ad ascoltarlo; Catone interviene per dare inizio all’espiazione.
    Canto III: Difronte al fenomeno per cui le anime non hanno ombra, Virgilio si rende conto del motivo per cui soffrono ora nel Limbo i savi privi di fede; nell’Antipurgatorio si trovano i morti scomunicati e i pentiti in fin di vita, i quali sostano per periodi diversi (tra questi Manfredi, re di Sicilia).
    Canto IV: Tra gli spiriti pigri si trova il fiorentino Belacqua, che riprende bonariamente Dante per la sua impazienza.
    Canto V: Bonconte da Montefeltro (figlio di Guido) narra di quando in battaglia era sospeso tra vita e morte, ma all’ultimo si rivolse alla Vergine Maria, salvandosi; parla poi la Pia, una donna gentile, assassinata dal marito.
    Canto VI: Altri spiriti chiedono a Dante di ricordarli ai vivi così che la loro preghiera possa diminuire le loro penitenze (tra loro Sordello, che rimane in disparte e si lamenta con Dante della divisione e della servitù d’Italia in quel momento).
    Canto VII: Sordello guida Dante e Virgilio in una valletta dove potranno trascorrere la notte, nella quale vivono altri spiriti negligenti (re e principi troppo presi da interessi mondani, tra cui Rodolfo d’Asburgo).
    Canto VIII: Incontro con Nino Visconti (amico di Dante) e profezia di Corrado Malaspina riguardo un grato soggiorno in Lunigiana.
    Canto IX: Dante sogna di essere rapito da un’aquila e al suo risveglio si ritrova davanti la porta del Purgatorio (trasportato da Santa Lucia), l’angelo che la controlla gli incide sulla fronte 7 P (corrispondono ai 7 peccati capitali e verranno cancellate all’uscita di ognuno dei rispettivi gironi).
    Canto X: Prima Cornice, superbi, espiano il loro peccato sotto al peso di macigni, gli esempi di umiltà sono intagliati sulla parete.
    Canto XI: Oderisi da Gubbio (miniatore) ammonisce Dante circa la vanità della gloria mondana, quella letteraria compresa.
    Canto XII: Sul pavimento sono raffigurati esempi di superbia punita, fra cui la rovina di Troia.
    Canto XIII: Seconda Cornice, invidiosi, hanno le palpebre cucite e ascoltano esempi di carità e di invidia; Dante colloquia con il senese Sapìa.
    Canto XIV: Dante parla della vita in Toscana e in Romagna con Guido del Duca e Rinieri da Calboli.
    Canto XV: Virgilio da spiegazioni sul peccato dell’invidia. Terza Cornice, Dante ha la visione estatica di esempi di mansuetudine.
    Canto XVI: Terza Cornice, iracondi, avvolti dalla tenebra; viene ripreso il motivo politico durante il discorso di Marco il lombardo sui poteri universali (Chiesa e Impero).
    Canto XVII: Virgilio parla dell’ordine del Purgatorio.
    Canto XVIII: Virgilio parla dell’amore. Quarta Cornice, accidiosi, costretti a correre senza posa, cantando esempi di sollecitudine e di accidia.
    Canto XIX: Dante sogna la Sirena (simbolo di seduzione dei beni mondani). Quinta Cornice, avari e prodighi, stesi bocconi con mani e piedi legati, alternano lodi di povertà a deprecazioni dell’avarizia.
    Canto XX: Tra loro Ugo Capeto maledice i re francesi, suoi discendenti.
    Canto XXI: Appare l’anima di Stazio (poeta latino), appena liberata dalla penitenza che sale verso il Paradiso, riconosce Virgilio suo maestro artistico e spirituale.
    Canto XXII: Con l’ecloga (componimento della poesia bucolica, allegorica con significato di celebrazione della vita agreste) che annunciava “secol si rinnova”, Virgilio indirizzò infatti Stazio verso la vera fede.
    Canto XXIII: Sesta Cornice, golosi, resi scheletrici dalla fame e dalla sete, con visioni di un albero carico di frutti e stillante di acqua, dalle fronde escono voci che annunciano esempi di temperanza e di gola; i 3 poeti attraversano questo girone e Dante incontra l’amico Forese Donati con il quale condivide il rimorso per aver ceduto ai piaceri della vita mondana.
    Canto XXIV: Dante spiega, a Bonagiunta da Lucca, che il suo stile è ispirato dall’Amore stesso, come non accadeva ai manierati poeti della scuola più antica, lui compreso.
    Canto XXV: Dante ascolta una lezione di Stazio sulla genesi dell’anima umana. Settima Cornice, lussuriosi, camminano nelle fiamme, cantando esempi di castità e di lussuria.
    Canto XXVI: Tra i lussuriosi due poeti molto cari a Dante: Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel.
    Canto XXVII: Dante esita difronte al muro di fuoco che bisogna varcare (come gli dice Virgilio è ciò che è posto tra lui e Beatrice) e grazie alla forza dell’amore scioglie l’ultimo legame con la sensualità, arrivando così in cima al monte e così si conclude la prima parte del viaggio (lo proclama Virgilio); Dante riconquista così la libertà di voler bene e fa sue le potenze della ragione naturale, il magistero di Virgilio è concluso.
    Canto XXVIII: Eden, un meraviglioso giardino custodito da Matelda (personificazione della felicità degli uomini se questi non fossero caduti nel peccato originale.
    Canto XXIX: Una processione mistica anima il giardino i cui componenti sono Parola di Dio, al centro un carro trainato da un grifone che rappresenta Cristo.
    Canto XXX: Sul carro siede Beatrice; Dante sente di nuovo la potenza dell’amore di cui però Virgilio lo aveva già privato; la donna lo rimprovera per la caduta nel peccato dopo la sua morte (probabilmente riferito agli errori filosofici, riguardo la perfezione del desiderio naturale di conoscere, ma soprattutto dal punto di vista della conversione).
    Canto XXXI: Il rito penitenziale si compie con la confessione e l’immersione di Dante nel fiume Lete (le cui acque liberano dal ricordo del peccato).
    Canto XXXII: Beatrice scende dal carro e intorno ad esso si va a creare la visione della storia della Chiesa e delle conseguenze della Donazione di Roma al papa da parte dell’imperatore Costantino.
    Canto XXXIII: Dante è incaricato di riferire agli uomini questa verità e di annunciare un messo divino (indicato con le cifre 500, 10 e 5, DVX, idealmente identificato con il Veltro) che porrà fine alle compromissioni tra Chiesa e potere secolare; Matelda fa bere a Stazio e a Dante l’acqua del fiume Eunoè (ravviva la memoria del bene), rendendoli così pronti di “salire alle stelle”.

    PARADISO
    Canto I: Beatrice e Dante ascendono al Paradiso attraverso la sfera del fuoco.
    Canto II: Giungono nella Luna e Beatrice spiega a Dante delle ombre presenti sul satellite della Terra.
    Canto III: Gli spiriti beati sono riflessi evanescenti, fra loro c’è Piccarda Donati (sorella di Forese).
    Canto IV: I beati risiedono tutti nell’Empireo, ma a Dante si mostrano nei cieli a secondo delle personali qualità di ognuno (ad esempio la Luna, che ogni volta appare diversamente, rappresenta la poca fermezza d’animo).
    Canto V: Cielo di Mercurio, vi risiedono gli spiriti che sono stati attivi per l’onore e la fama (imperfezione).
    Canto VI: Giustiniano racconta la storia dell’Impero Romano.
    Canto VII: Beatrice spiega perché la morte di Gesù fu ingiusta in relazione sia al peccato di Adamo sia alla sua stessa persona.
    Canto VIII: Cielo di Venere, spiriti amanti, tra questi Carlo Martello d’Angiò, caro amico di Dante.
    Canto IX: Cunizza da Romano, il quale passava da amori sensuali ad amore divino; entrambi i personaggi preannunciano profezie politiche; Folchetto di Marsiglia invece protesta contro la corruzione ecclesiastica.
    Canto X: Cielo del Sole, sapienti, tra questi Sigieri (eterodosso).
    Canto XI: Dante stigmatizza sarcasticamente la cura degli uomini per gli affari del mondo; Tommaso d’Aquino elogia Francesco d’Assisi e condanna la decadenza dell’ordine domenicano (egli stesso vi appartiene).
    Canto XII: Bonaventura (francescano) loda San Domenico ed esprime la sua disapprovazione riguardo la condizione dei Frati minori.
    Canto XIII: Tommaso parla della creazione, ammonisce a giudicare con cautela i destini ultraterreni degli uomini.
    Canto XIV: Dante espone un suo dubbio e Salomone spiega come i corpi risorti, alla fine dei tempi potranno godere di splendori paradisiaci. Cielo di Marte, spiriti militanti.
    Canto XV: Dante viene salutato da Cacciaguida (suo avo) il quale nostalgicamente gli descrive la bellezza dell’antica Firenze.
    Canto XVI: Firenze è ormai rovinata dal miscuglio fra stirpi cittadine e contado (territorio rurale).
    Canto XVII: Cacciaguida pronuncia profezie sull’esilio di Dante, indicandogli la corte di Cangrande della Scala (Verona) come rifugio sicuro.
    Canto XVIII: Cielo di Giove, gli spiriti giusti formano il disegno di un’acquila.
    Canto XIX: L’aquila ragiona sulla giustizia divina, imperscrutabile.
    Canto XX: Dalla giustizia divina furono miracolosamente salvati anche pagani come l’imperatore Traiano e Rifeo.
    Canto XXI: Cielo di Saturno, spiriti contemplati, tra loro Pier Damiani.
    Canto XXII: Benedetto da Norcia (severo con i monaci del presente); Beatrice e Dante salgono verso il Firmamento (Cielo delle Stelle).
    Canto XXIII: Visione di Cristo e Maria trionfanti.
    Canto XXIV: Dante viene sottoposto ad un esame dottrinale al fine di esaltare le virtù sulla teologia in suo possesso; San Pietro lo interroga sulla Fede.
    Canto XXV: San Giacomo lo interroga sulla Speranza (Beatrice lo proclama sommamente virtuoso in questo campo).
    Canto XXVI: San Giovanni Evangelista sulla Carità; Dante chiede chiarimenti ad Adamo riguardo le prime vicende degli uomini; Adamo gli rivela che la lingua da lui parlata era già “spenta” al tempo di Babele (corregge il “De vulgari eloquentia” che indicava prima lingua degli uomini l’ebraico).
    Canto XXVII: Pietro fa un sermone contro le degenerazioni della Chiesa; Beatrice e Dante raggiungono il Cielo Primo Mobile.
    Canto XXVIII: Beatrice rivela l’ordine delle schiere angeliche, ciascuna delle quali ha il compito di muovere un cielo.
    Canto XXIX: Beatrice chiarisce che nelle anime sante l’amore per Dio viene subito dopo la visione intellettuale.
    Canto XXX: Dopo i cerchi celesti c’è l’Empireo, non esiste fisicamente; Dante ha la visione di un fiume luminoso, poi di un anfiteatro a forma di rosa, sui cui gradini siedono i beati e al centro c’è Maria.
    Canto XXXI: Beatrice va ad occupare il suo posto, accanto a Rachele; a Dante si avvicina Bernardo da Chiaravalle, un grande mistico che sarà la sua terza ed ultima guida (allegoria del passaggio dal credere per fede nella verità rivelata, al contemplare direttamente Dio).
    Canto XXXII: Bernardo indica e nomina alcuni santi.
    Canto XXXIII: Bernardo prega Maria di concedere a Dante, ancora mortale, la visione di Dio; Dante ha questa visione, in forme talmente sublimi che la sua memoria non ha potuto contenerle e perciò può renderla solo in modo allusivo e schematico (incondizionata partecipazione all’amore che “muove il sole e le altre stelle”).
     
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    Ghəi Chinəsi

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    POESIA CORTESE PROVENZALE
    Si passa da ideologia cavalleresca, dei paladini coraggiosi, valorosi e fedeli (al signore). L’onore e la paura di non poter tener fede alla parola data sono i valori dei protagonisti dei poemi epici detti “canzoni di gesta”:
    - ciclo carolingio: vicende di Carlo Magno e i suoi paladini; prende spunto dalla battaglia di Roncisvalle; a questo appartiene la “Chanson de Roland” (Canzone di Rolando);
    - ciclo bretone: Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda;
    - ciclo classico: personaggi storici o appartenenti ad antichi miti.
    La società cavalleresca non abbandona i propri ideali, ma li integra con quelli cortesi, che vanno appunto a svilupparsi nelle corti. Cortese vuol dire anche gentile, raffinato. Gli ideali: disprezzo degli interessi materiali, a sublimare il desiderio erotico; magnanimità (generosità e il sacrificio per gli altri); il domino interiore manifestato attraverso la signorilità; raffinatezza (comportarsi e parlare bene).
    Il mondo cortese ruota intorno alla figura della donna che viene rivalutata (fino all’alto medioevo percepita come un essere diabolico):
    - culto della donna: idealmente irraggiungibile;
    - sottomissione dell’uomo da parte dell’amata: questa ne è superiore;
    - l’innamorato ama senza necessariamente essere ricambiato;
    - si cerca di proteggere l’amore poiché, il più delle volte, fuori dal matrimonio
    - contrasto tra culto della donna e religione cristiana: risolto poi da Dante il quale dice di superare la tentazione carnale spiritualizzandola.
    Poesia trobadorica: (da trobar “fare poesia”, fine XI sec) Francia meridionale (Provenza) dove la lingua è quella occitanica; strettamente legata al mondo feudale delle corti; un tipo di poesia cantata in pubblico e accompagnata da musica (interpretata dai poeti stessi o dai giullari); inizialmente tramandata oralmente fino alla nascita dei canzonieri (raccolte di poesie) nel XIII sec
    Trovatori: importanti esponenti dell’amor cortese; si esprimono in lingua d’oc; viaggiavano per le corti allo scopo di intrattenere i cortigiani, soprattutto in Provenza; si distinguono dai trovieri del nord della Francia perché questi ultimi scrivevano in lingua d’oil; tra loro c’erano sia signori con il vezzo della poesia (Guglielmo d’Aquitania), feudatari di livello minore e poeti di origini più modeste (talvolta anche giullari come Raimbaut de Vaqueiras).
    Temi principali:
    - rapporto tra poeta e donna amata, elaborato come un rapporto feudale, dove la dama è il signore che deve accordare la ricompensa o la grazia del vassallo fedele (da qui si codificano una serie di atteggiamenti che saranno alla base di buona parte della lirica dei secoli successivi, come il rapporto di sottomissione del poeta alla donna amata, la serie di prove a cui l’amante deve sottoporsi per dimostrare l’autenticità del suo sentimento e le strategie di corteggiamento);
    - legame di rispetto e devozione nei confronti del signore;
    - le virtù cortesi (lealtà verso il signore, generosità nei confronti dei deboli, liberalità nei rapporti umani) così da poter essere degno dell’amore della dama;
    - presenza di passione e amore fisico;
    - la questione della nobiltà d’animo (tornerà nello Stil Novo, l’amore riservato solo ai nobili di sangue o d’animo);
    - morali, bellici/guerra e politici (connessi alla vita feudale).
    Vidas: biografie dei trovatori
    Razos: commenti alle poesie
    Rilievo storico-letterario: introduzione della versificazione tonico-sillabica (incentrata sul numero delle sillabe e sulla disposizione degli accenti tonici nel verso, che nella poesia latina invece si basava solo sulla quantità di sillabe); verso più illustre è il decasillabo (modello dell’endecasillabo italiano); a fine verso sempre la rima (fondamentale elemento ritmico e semantico); introduzione le coblas, gruppi di versi (stanze o strofe) identificati da uno schema costante di rime.
    Generi più diffusi: canzone (canso) d’amore; sirventese sul tema politico (canzone celebrativa, in cui viene elogiato il signore); sestina d’amore (composto da 6 versi che finiscono con la stessa parola); pastorella (tentativo del cavaliere di sedurre una giovane popolana); alba (disappunto del cavaliere nel veder sorgere il sole dopo aver passato la notte con la sua dama); compianto (planh, sirventese per un signore morto); tenzone (scambio di opinioni tra poeti, in rima, serie o giocose, su un determinato argomento); plazer (piacere, lista di cose piacevoli); enoug (noia, elenco di cose noiose e spiacevoli).
    Stili: trabar clus (poetare chiuso), linguaggio poetico difficile, elaborato; trabar leu (poetare dolce), linguaggio più accessibile e aggraziato.
    Diffusione fuori dalla Francia favorita anche dalla prima crociata (1208-1229) che fu vinta dalle corti del Nord e di conseguenza i poeti, non avendo più protezione, scappano in Germania, Spagna e ovviamente Italia. In Italia vengono attirati dall’accoglienza dei signori italiani, tra cui anche Federico II, allo scopo di dare prestigio alla corte siciliana (e quindi all’imperatore, amante e promotore della cultura). Si diffonderà poi in Toscana per i rapporti che quest’ultimo aveva con i ghibellini. La lirica provenzale comunque rimane una prerogativa soprattutto della zona trevigiana, piemontese e ligure.
    De Amore (XII sec) di Andrea Cappellano, il quale descrive l’ars amandi (arte di amare) va a fissare quelle che sono le norme e i canoni dell’amor cortese. Formato da 3 libri: nei primi 2 espliciti riferimenti all’amore extraconiugale, quasi negato però nel 3, per timore della censura. Protagonista è Gualtiero (rappresenta l’autore) un maestro in amore, intrattiene 4 nobildonne. Gli obiettivi esposti nei primi 2 sono: regole fondamentali del comportamento amoroso; definire in cosa consiste l’amore perfetto. Nel 3 vi è una rivalutazione del matrimonio e del rapporto d’amicizia uomo-donna. Il vero amore porta al perfezionamento morale (coincide con l’ideale cavalleresco della cortesia) e per questo l’amante deve porsi al servizio della donna (come un vassallo al signore). A questa concezione di amore s’ispirarono i siciliani, gli stilnovisti, condannato invece da Dante.

    *2
    "Io voglio del ver la mia donna laudare"
    Sonetto che esprime la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli, in cui la lode della bellezza e della virtù dell’amata si accompagna al valore "salvifico" del suo saluto, che acquista significato religioso di convertire alla fede cristiana. Donna descritta con immagini come: fiori (la rosa, il giglio) e dei corpi celesti, nonché tutte le bellezze del mondo naturale (come Cantico).

    Io voglio del ver la mia donna laudare
    ed asembrarli la rosa e lo giglio:
    più che stella dïana splende e pare,
    e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

    Verde river’ a lei rasembro e l’âre,
    tutti color di fior’, giano e vermiglio,
    oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
    medesmo Amor per lei rafina meglio.

    Passa per via adorna, e sì gentile
    ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
    e fa ’l de nostra fé se non la crede;

    e no·lle pò apressare om che sia vile;
    ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
    null’om pò mal pensar fin che la vede
    Io voglio lodare la mia donna secondo verità e paragonare a lei la rosa e il giglio: splende e appare più bella della stella Venere e io paragono a lei ciò che è bello lassù [in cielo].

    Paragono a lei una verde campagna e l'aria, tutti i colori dei fiori, il giallo e il rosso, l'oro e l'azzurro [i lapislazzuli] e gioielli tanto preziosi da poter essere donati: lo stesso Amore grazie a lei diviene più perfetto.

    Ella passa per strada così bella e così nobile che abbassa l'orgoglio di colui a cui dà il proprio saluto e lo fa diventare della nostra fede [cristiana], se non crede in essa;

    e non le si può avvicinare un uomo non nobile; vi dirò che ha una virtù ancora più grande: nessuno può pensare male finché la vede.


    • Metro: sonetto con rima regolare (ABAB, ABAB, CDE, CDE), rima siciliana ai vv 6-8 (-iglio/-eglio). La lingua è quella letteraria dell'Italia settentrionale, con alcune forme bolognesi, latinismi, francesismi.
    • Diviso in 2 parti simmetriche, poiché nelle quartine si concentra sul motivo della lode della bellezza della donna, mentre nelle terzine si sposta sulle sue virtù "salvifiche" (saluto che converte addirittura alla fede cristiana); la nobiltà e bellezza della donna sono un tutt'uno ed essa tiene a distanza gli uomini, non nobili di cuore, così come il suo atteggiamento impedisce di pensare male. La novità della "maniera" dell'autore consiste proprio nel valore religioso della figura femminile (donna-angelo), mentre l'amore diventa un legame spiritualizzato, pur rientrando nella concezione dell'amore cortese.
    • Donna lodata in paragone al giglio e alla rosa (simbolo di purezza e nobiltà nella poesia classica, riferimento al loro colore bianco che rimanda al colore della pelle, mentre il rosso allude alla bocca, simbologia ampiamente ripresa dagli Stilnovisti e da Petrarca). Il paragone si arricchisce con altri elementi naturali, sia del mondo celeste (specie Venere, "stella dïana", annuncia la venuta del giorno nelle prime ore del mattino), sia del paesaggio, sia del mondo minerale, con l'accostamento ai colori delle pietre preziose, secondo uno schema che si ripete spesso in Guinizelli e negli Stilnovisti fiorentini.


    *3
    "Lo vostro bel saluto"
    Sonetto della nuova maniera inaugurata da Guinizelli, in cui l'attenzione non si concentra tanto sulla "gentilezza" della donna o sulla lode della sua bellezza, quanto sugli effetti devastanti che il saluto di lei e l'amore provocano nell'animo del poeta, quasi ucciso dalla sofferenza. Il tema ripreso e ampliato a Fiorenze, in particolare da Cavalcanti che farà dell'amore "tragico" uno dei sui temi fondamentali.

    Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo
    che fate quando v’encontro, m’ancide:
    Amor m’assale e già non ha reguardo
    s’elli face peccato over merzede,

    ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo
    ched oltre ’n parte lo taglia e divide;
    parlar non posso, ché ’n pene io ardo
    sì come quelli che sua morte vede.

    Per li occhi passa come fa lo trono,
    che fer’ per la finestra de la torre
    e ciò che dentro trova spezza e fende;

    remagno como statüa d’ottono,
    ove vita né spirto non ricorre,
    se non che la figura d’omo rende.
    Il vostro piacevole saluto e il vostro sguardo nobile, che mi rivolgete quando vi incontro, mi uccide: Amore mi assale e non si preoccupa se mi causa dolore o piacere,


    poiché mi ha lanciato una freccia in mezzo al cuore che lo trapassa da parte a parte; non posso parlare, in quanto ardo di dolore come colui che si vede prossimo alla morte.

    Amore passa attraverso gli occhi come fa il tuono, che colpisce per la finestra della torre e spezza e distrugge ciò che trova dentro;

    io rimango come una statua d'ottone [insensibile], in cui non ci sono vita né anima, se non per il fatto che ricorda la figura di un uomo.


    • Sonetto con rima regolare (ABAB, ABAB, CDE, CDE), con rime siciliane ai vv. 2-4, 6-8 (-ide/-ede). Linguaggio particolarmente aspro, specie nelle descrizioni gli effetti dolorosi dell'amore (allitterazioni di suoni duri, come il gruppo"tr" e la lettera "z", poi evitata dai fiorentini poiché poco musicale).
    • Descrive gli effetti che l'amore produce in lui quando l’amata gli rivolge il suo saluto; un sentimento corrisposto che, tuttavia, causa sofferenze nel poeta (l'immagine a cui ricorre è quella del classico Amore che assale l'uomo e gli fa del male).
    • Motivo dell'amore come dolore ricorre già in alcune liriche di Guittone d'Arezzo, in cui tuttavia la sofferenza è causata dal disdegno della donna che non ricambia lo sguardo del poeta e lo uccide col suo orgoglio.


    *4
    "Chi è questa che vèn"

    Sonetto tra i più celebri di Cavalcanti. La lode della bellezza dell’amata è accompagnata alla dichiarazione di impotenza nel descriverla appieno, data la natura angelica e trascendente della donna. La bellezza della donna-angelo è tale che ogni uomo al solo guardarla rimane ammutolito; la sua virtù più importante è l'umiltà, che la rende superiore a tutte le altre donne. L'amore diventa esperienza religiosa (quasi mistica) anticipando il tema dell'ineffabilità della bellezza (ripreso soprattutto da Dante nella "Vita nuova" e nel "Paradiso").

    Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
    che fa tremar di chiaritate l’âre
    e mena seco Amor, sì che parlare
    null’omo pote, ma ciascun sospira?

    O Deo, che sembra quando li occhi gira!
    dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
    cotanto d’umiltà donna mi pare,
    ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

    Non si poria contar la sua piagenza,
    ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
    e la beltate per sua dea la mostra.

    Non fu sì alta già la mente nostra
    e non si pose ’n noi tanta salute,
    che propiamente n’aviàn canoscenza.
    Chi è questa donna che arriva, che ognuno ammira e che fa tremare l'aria di luminosità, e che porta con sé l'amore, cosicché nessuno può parlare ma ognuno sospira?

    O Dio, che cosa sembra quando muove gli occhi! Lo dica l'amore, poiché io non lo saprei descrivere: mi sembra una donna talmente umile che ogni altra donna, al suo confronto, io la definisco malvagia.

    La sua bellezza non si potrebbe raccontare, poiché a lei si inchina ogni virtù nobile e la bellezza la indica come sua dea.


    La nostra mente non è mai stata così profonda e in noi non c'è mai stata tanta perfezione, che possiamo avere una conoscenza compiuta di questa bellezza.


    • Sonetto con schema regolare (ABBA, ABBA, CDE, EDC). La lingua presenta alcuni latinismi e provenzalismi, con uno stile semplice e conforme al trobar leu proprio dello Stilnovo.
    • Celebra la bellezza dell’amata, arricchisce il tema con riferimenti religiosi (secondo il modello di Guinizelli) e sviluppa il motivo della bellezza femminile come espressione della grazia divina, impossibile da cogliere e da esprimere con limitati mezzi “umani”. Atmosfera mistica, con l'incipit che ricorda il Cantico dei Cantici, mentre la donna è come se fosse dotata di aureola, che fa ammutolire tutti coloro che la guardano. Umile, più di qualunque altra donna e ciò la rende superiore. L'incapacità di coglierne pienamente la bellezza è di tipo filosofico, l'amore diventa un'esperienza affine al misticismo medievale, troppo profonda per essere espressa a parole. Alcuni studiosi hanno visto riferimenti alla dottrina dell'averroismo, di cui forse Cavalcanti era seguace, mentre è noto che l'uomo fu dedito a studi filosofici e come tale anche rappresentato in altri testi letterari (Decameron di Boccaccio).
    • Motivo della bellezza "sovrumana" e dell'incapacità poetica di esprimerla, sarà ripreso anche da Dante, sia nella Vita nuova sia nel Paradiso, in cui il tema dell'ineffabilità della bellezza e della visione divina, sarà dominante e derivato dal modello di Cavalcanti.


    CITAZIONE
    Testi di riferimento:
    - "La letteratura italiana del Medioevo" di Giorgio Inglese, Luigi Trenti e Stefano Carrai
    - "La Divina Commedia: Inferno" di Dante Alighieri
    - "Dante: guida alla Divina Commedia" di Giorgio Inglese
    - "L'io e il mondo: Un'interpretazione di Dante" di Marco Santagata
     
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2 replies since 22/1/2021, 10:45   16 views
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