Riassunto "Itinerari nel sacro" di Raveri M.

Religioni e Filosofie dell'Asia Orientale - D. Rossi

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    Itinerari nel sacro
    di Massimo Raveri


    Lo spazio.

    • Lo spazio sacro.
    Non vi sono caratteristiche differenti tra spazio sacro e profano, che impongano comportamenti sociali diversi. Questi appartengono alla stessa logica culturale.
    Sono i bisogni e la struttura sociale di una società a produrre lo spazio che meglio la rappresenta.
    Vi è un'organizzazione passiva delle condizioni oggettive e inevitabili e una attiva, frutto del processo di appropriazione e modificazione del territorio. Si può distinguere fra: organizzazione tecnica, organizzazione sociale e organizzazione mentale dello spazio. Lo spazio sacro le riassume tutte e tre.


    • La risaia.
    La percezione dello spazio attraversa due vie:
    – dinamica, consiste nel percorrerlo prendendone coscienza;
    – statica, ricostruire attorno a sé i cerchi che arrivano ai limiti dell'ignoto.

    Nella mitologia, le isole giapponesi sono considerate l'unico mondo, oltre vi è il nulla. Inizialmente si trattava di un luogo in cui regnava il caos, pericoloso. Quando Susanowo no mikoto vi mise piede, ne prese possesso e la rese vivibile e pacifica.
    In questo mito si rispecchia l'azione ordinatrice che la cultura giapponese ha effettuato sul suo territorio.
    La conquista dello spazio avviene con l'utilizzo del riso e perciò con le risaie. Cambiò in questo modo l'approccio dell'uomo verso la natura, che diventa attivo dominatore. La risaia cominciò a modificare l'ecosistema in senso verticale, avvicinandosi alle zone collinari e alle pendici delle montagne, senza però superare certi confini. Ma allo stesso tempo non prosciuga il terreno delle sue proprietà nutritive, continuando a produrre per lunghi periodi. Diversamente dallo yakihata (coltivazione "taglia e brucia").
    Il rapporto dell'abitato rispetto al coltivato, dell'insediamento dell'uomo rispetto all'ambiente è ciò che conta. Il villaggio è un insieme di abitazioni, costruite l'una vicino all'altra al centro dei campi di riso, a fondo valle o ai piedi delle montagne.


    • La montagna.
    Al di là del limite della risaia il mondo è diverso, per caratteristiche sia naturali che sociali. È la montagna.
    Il termine "yama" sembrerebbe avere origine da due accezioni: quella di montagna e quella di foresta.
    All'opposto, "sato" è il luogo abitato, il villaggio, la campagna coltivata.
    Lo spazio articolato e lo spazio inarticolato: ordinato e disordinato, il regno dell'uomo che controlla la natura e il regno naturale in cui l'uomo non interferisce.
    I concetti sono espressi da:
    – "nigi", pacifico, ordinato, significa essere di una specifica configurazione sociale, vivere in armonia con ciò che ci circonda;
    – "ara", selvatico, incontrollato, esprime un abbandono.

    La montagna è simbolo di immutabilità nello spazio e di eternità. La sua non-umanità è resa positiva nell'esperienza del divino, la montagna è la vita ed è il simbolo dell'origine dell'esistenza.


    • Il tempio.
    Il santuario è costruito sul pendio della montagna, al limitare della foresta, sulla linea "di confine". L'imboccatura della prima risaia, il punto in cui l'acqua entra nel primo campo, il limite che segna la trasformazione dell'acqua da elemento naturale e incontrollato a controllato e determinate nella vita dell'uomo.
    Il luogo sacro è separato e ben definito: è percepito come anomalo in quanto spazio di incontro con il dio. Delimitarlo significa garantire la sicurezza del mondo normale e del regno degli dei, impedendo il passaggio casuale. Sono sempre presenti simboli che indicano il limite, come il muro del tempio e lo shimenawa (una corda di paglia intrecciata che va ad indicare un albero centenario, una roccia o altri elementi che possono contenere un dio).
    L'architettura del tempio sottintende due movimenti: dell'uomo e del dio. L'uomo deve seguire un percorso obbligatorio: passare sotto al torii, purificandosi, per poi fermarsi dove gli è consentito e non proseguire, in un movimento che va sempre dal basso verso l'alto. Il punto più alto nel progredire dell'uomo, coincide con il punto più basso dello spazio del dio.
    Il tempio ingloba la foresta e la parete retrostante quasi poggia contro la collina (struttura mantenuta anche nei tempi in pianura). Questo implica che si trovi ancora nella zona selvatica. In alcuni casi yama è considerata parte integrante del tempio, altre volte capita che lo spazio sacro comprenda il mare (perciò il torii nelle acque indica che quello è il vero santuario).
    Il luogo d'incontro con la divinità era definito da pochi elementi iconografici: era uno spazio quadrato, delimitato da shimenawa, al cui centro c'era l'albero di sakaki decorato con strisce di carta e magatama, a cui era appeso uno specchio.


    • Il concetto di oku.
    Una dimensione articolata, complessa, alla cui base vi è la dicotomia di nigi e ara, su cui si inserisce la relazione fra "omote" e "ura", che rimandano all'idea di "oku".
    Omote indica sia il viso che una maschera: è la faccia sociale, in un oggetto è la sua superficie, in un luogo indica la parte orientata al sole, in una casa è il lato esterno.
    Ura è invece la parte nascosta delle cose e degli uomini, l'interno, la parte in ombra.
    Oku significa profondità, il cuore delle cose.
    "Utsubo" significa vuoto e cavo; è la qualità di contenere e racchiudere una forza divina, quindi è un vuoto in cui qualcosa risiede, perciò vuol dire anche pieno.
    "Ma" è lo spazio fra più cose, un intervallo neutro fra più avvenimenti; è un vuoto che separa e unisce allo stesso tempo.

    Il nulla non è inteso come dispersione di significati, ma è un modo per concentrarli.
    Il potere sacro si manifesta nell'oku, e rocce, caverne ed alberi possono essere utsubo.
    Lo spazio sacro esprime sempre un movimento verso l'oku. La dinamica del mondo di yama si basava su due elementi: il tempio del villaggio (satomiya), alla base del monte, e un tempio più piccolo e segreto (okumiya). I riti comunitari si svolgono nel satomiya e solo alcuni riti esoterici si svolgono invece nell'okumiya.


    • Uno spazio marginale.
    Il satomiya è la porzione al di sopra dei campi di riso e appartiene al villaggio.
    L'okumiya è la zona più in alto e apparteneva al signore feudale e ora è dello stato.

    I tipi di foresta sono cinque, ma quello più importante a livello culturale è detto "shoyojurin" ("a foglia lucida"): formato da piante sempreverdi, con foglie piccole, lucenti e resistenti alle temperature rigide. In queste zone nascono taro, imo, yama imo, tè, banane e mikan.
    Un'antica tecnica di coltivazione era quella dello "yakihata" ("taglia e brucia") a rotazione, seppure sia più "debole" della risicultura. A caratterizzarlo è il suo sistema adattivo, che si integra nella generale struttura dell'ecosistema naturale e tende a riprodurlo; permette l'esistenza di una numerosa varietà di tipi di flora sullo stesso suolo e l'energia prodotta è distribuita su differenti specie.
    Questo tipo di coltivazione produce un rapporto ambiguo fra natura e società: il territorio è selvatico ma non del tutto, coltivato ma non del tutto.

    Yama è il regno ultra-umano, degli esseri in metamorfosi: di mostri, tengu, yamabushi. Vi abitano anche animali fantastici come i tanuki, le volpi bianche kitsune. Nel suo profondo nasconde gli oni, che i giovani del villaggio impersonano durante alcuni riti, indossando grandi maschere, facendo irruzione nel tempio per seminare scompiglio.

    Le popolazioni di montagna sono ormai rare, vi fanno parte cacciatori, boscaioli, carbonai, resinatori di lacca e minatori. Sono nomadi o seminomadi: durante l'estate si fermano in un villaggio ad aiutare i contadini per poi ripartire. Parlano una lingua diversa, ma usano questo linguaggio solo quando si inoltrano nella foresta. Spesso queste persone vengono chiamate con termini dispregiativi.


    • Architettura dell'impermanenza.
    Il tempo sgretola anche la pietra, ma sarà la pietra stessa la causa della propria rovina.
    Il materiale scelto per costruire, nell'architettura tradizionale giapponese, è volutamente fragile, come legno, la paglia e la carta.
    Distruggere ciclicamente l'architettura sacra per poi ricostruirla identica, è il concetto alla base di questa ideologia.
    La costruzione, in questo modo, è in sintonia con lo scorrere del tempo, è nuova e antica allo stesso tempo.
    Essere "puro" è una condizione di integrità che ricalca una condizione spirituale di makoto, di concentrazione della mente.


    • Il limite.
    L'oku della montagna è la cima, il dominio assoluto della montagna. Poco prima della vetta vi è un piccolo tempio, un altro luogo in cui è possibile l'incontro con dio, ma in questo luogo è considerata un'esperienza mistica.
    Salire la montagna è un'ascesi, un percorso di trasformazione interiore che porta alla disumanizzazione dell'individuo, che si isola dal mondo e dalla società. Vivere nella montagna è considerato antisociale e antinaturale. Non è quindi un ritorno alla vita "naturale", ma la ricerca di qualcos'altro.

    Il tokoyo è un luogo paradisiaco, al di là dell'orizzonte, dove si recano gli spiriti e dove regnano gli dei. Talvolta si parla di una lontana isola felice. Alla sua immagine si sovrappone quella del ryugu, il luminoso e palazzo sottomarino del dio. È un luogo all'inizio dello spazio e del tempo, spesso detto anche Ne no kuni ("il paese delle origini").
    La scelta di abbandonare il proprio corpo alle onde deriva dalla coscienza della crisi, da una visione pessimistica di una vita in cui la verità del Dharma non è chiara e perciò il suicida si butta nella speranza di trovare la salvezza, abbandona il proprio corpo incontrando il Buddha.


    • Coltivato e incolto.
    All'interno del coltivato si distinguono due zone:
    – "ta" (risaia), sicuro e ordinato;
    – "no", spazi aperti in pianura, desolati, terreni acquitrinosi, proiezione del satoyama.

    Anche nel regno dell'uomo esistono zono del sacro non pienamente conoscibile e dalle potenzialità fuori controllo. Sono luoghi in cui vivono gli spiriti dei morti vendicativi, i goryo. Zone abbandonate di vegetazione incolta, dove riemerge la foresta. La società le delimita, le isola e le nega.


    • Il gusto per l'asimmetria.
    La cultura giapponese evita spazi che siano la proiezione di un solo punto di vista, organizzati simmetricamente.
    La spazialità si nega a una comprensione immediata e facile, bisogna cogliere lo spazio nel suo insieme.
    Nelle città non vi sono piazze o luoghi centrali. I percorsi delle processioni dei matsuri non sono dritti, possono sembrare quasi casuali, ma in realtà unisce tutti i luoghi salienti, di confine e focali della vita sociale. Ricrea la mappa ideale della comunità e del suo territorio.

    Il sovrano è un edificatore perché l'architettura è fondamentale per il potere. Il palazzo del sovrano era per questo motivo imponente.

    Impattando con la cultura cinese, la società giapponese si chiude su sé stessa. L'architettura si adatta, il piano urbanistico si apre, le line dritte si spezzano e la simmetria si piega. Nelle vicinanze del palazzo sorgono grandi ville, molte strade cominciano a seguire un tracciato irregolare.

    Tutti gli elementi dell'architettura tradizionale sono semplici, umili, naturali, ma comunque ricercati nei dettagli. L'attenzione è rivolta all'interno, lo spazio è racchiuso, ma fittiziamente allungato con la disposizione dei volumi.


    • Giardini e paradisi.
    All'interno del tempio il giardino è fondamentale. La costruzione deve entrare armonicamente nello schema di relazioni spaziali del giardino, assecondandolo.
    "Nigi" è un luogo di pace ed è anche "ara" poiché riproduce la natura come fosse incontaminata.
    La sua struttura cerca di riprodurre il paradiso ed un'eterna primavera, utilizzando piante che producono fiori in ogni stagione e alberi sempreverdi.


    • Esterno e Interno.
    "Shima" (isola) è come spesso veniva denominato il villaggio. Oltre i suoi confini vi è una dimensione ostile.
    La comunità ha una posizione ambivalente con ciò che la circonda: vi è un rapporto di scambio di beni e allo stesso tempo si tende all'autoisolamento.
    La casa del toya è il centro dello spazio sacro, l'oku del mondo ordinario.
    Lo spazio ha un doppio orientamento:
    – centrifugo, dal centro della casa verso l'esterno;
    – centripeto.
    Il toya, prima del matsuri, sale le colline, verso i confini del villaggio, officia il rito di purificazione e riscende la vallata purificando anch'essa fino a raggiungere la sua casa.


    • La casa.
    Una nuova casa deve inserirsi pacificamente in uno schema di relazione. Prima di costruirla si consulta per questo un esperto di arte divinatoria. Si fa attenzione alle forze yin e yang che vengono utilizzate a proprio favore.
    La casa rurale classica unisce il terreno coltivato alle costruzioni separate. L'entrata è a sud, la stalla e il deposito ai lati. Il gabinetto è costruito all'esterno poiché è considerato il posto più impuro, più kegare. Invece il punto più hare, puro, è lo zashiki, la stanza dove si ricevono gli ospiti.
    La cucina è in parte hare e kegare, si trova a livello terreno senza tatami, in linea con il bagno, ma è all'interno della casa. E comunque considerata un luogo sacro perché zona di mediazione con l'esterno, con la natura.
    Più a nord vi sono le stanze da letto.
    In un angolo del giardino, dalla parte opposta del gabinetto, vi è un tempietto votivo dedicato allo yashikigami, che protegge il terreno e la famiglia.


    • La fuga e il ritorno: il pellegrinaggio.
    Gli yamabushi accentuano l'aspetto sacro della montagna, poiché vivono la loro esperienza come un'ascesi difficile. In questo modo contribuiscono a mantenere lontano il mondo di yama dal dominio dell'uomo comune e fuori dal quotidiano.
    Può capitare che assumano il ruolo di sacerdoti ufficiali del tempio del villaggio e scendono dalla montagna per offrire cerimonie e riti in cui pongono delle barriere simboliche verso l'alto, insuperabili da un uomo comune. Come la cerimonia dello Yamabiraki in cui consentono a tutti i fedeli di essere guidati verso la vetta, così da poter fare anche loro un'esperienza d'ascesi.

    Antico itinerario nell'isola di Shikoku il quale tocca ottantotto tempi dedicati al bodhisattva Kannon. Ha origine nello Shugendo e deve la sua fama a Shinnen, un monaco del buddhismo tantrico.
    Leggenda vuole che sia stato Kukai, fondatore della scuola Shingon, ad "aprire" questo itinerario, ricalcando i passi del suo venerabile maestro cercando di sentirsi più vicino e simile a lui. In ognuno degli ottantotto punti in cui sosta, lascia un segno del suo passaggio e quello di Kobo Daishi. L'anima del maestro è racchiusa nel bastone che usa durante il tragitto.
    Tragitti simili vennero riproposti anche in altre isole e località.

    Nei villaggi è comune che delle persone si riuniscano in un'organizzazione per promuovere un pellegrinaggio a templi lontani e famosi. Durante il percorso si possono non osservare le regole d'etichetta, rilassarsi, caratterizzando il viaggio con un clima confusionario. Questo è un ordine nell'apparente disordine. Il percorso è prefissato e in anticipo si conoscono anche i comportamenti da tenere.
    È una fuga che prevede un ritorno ed implica una trasformazione interiore.


    • Itinerari di ascesi.
    Più profondo è l'itinerario degli asceti.
    Una delle pratiche di fede consiste nello spostarsi a piedi continuamente, interrompendo i rapporti con il mondo del quotidiano e a perdersi nella solitudine dello spazio selvatico.
    È un'esperienza spirituale che permette di ripercorrere tutti gli stadi della mente verso la conoscenza pura.
    La montagna diventa mandala, che non è solo il simbolo della buddhità, ma le sue figure esprimono lo sforzo di sintetizzare ogni fase della penetrazione della mente nella conoscenza più pura. Questo rende l'idea del percorso nello spazio a cui corrisponde una trasformazione interiore dell'individuo.
    Mentre cammina l'asceta ricostruisce le diverse figure del mandala, si identifica con esse e realizza i vari aspetti della conoscenza illuminata che queste rappresentano.


    Il tempo.

    • La ciclicità del tempo.
    Lo scorrere dell'esistenza acquista certezza diventando prevedibile. È organizzato e scandito dai ritmi della coltivazione. L'uomo assume il controllo sul fluire degli eventi.
    La configurazione del tempo è basata sull'idea di regolarità e ripetitività: alle stesse date ricorrono gli stessi fenomeni. Il tempo assume una ciclicità e la definizione di "circolare".
    Stessa ciclicità è ripetuta nel vissuto religioso.


    • I riti dell'anno.
    Le cerimonie religiose segnano i momenti tra le fasi della coltivazione del riso.
    Il Ta asobi (febbraio/marzo) consacra l'inizio delle coltivazioni di riso.
    Il Minaguchi matsuri è la cerimonia di apertura delle chiuse che vanno a fertilizzare le risaie.
    Il Taue matsuri (giugno) è il trapianto rituale delle spighe di riso, in cui si prega per ricevere la protezione da parte del dio per le risaie.
    L'estate è disseminata di riti ed eventi per augurare una buona riuscita del raccolto e per proteggerlo.
    Il Niinamesai ("festa delle primizie") è una cerimonia in cui le spighe di riso vengono offerte alla divinità e segna la conclusione del ciclo della risicultura. Consacra l'unione tra gli uomini e la divinità che tutela il territorio in cui vivono.
    Il una forma molto simile ad esso avviene la consacrazione dell'ascesa al trono del nuovo imperatore. Il Daijosai si svolge quasi in segreto, durante la notte, in due santuari appositamente costruiti all'interno del palazzo imperiale. Dopo un periodo di digiuno e astinenza rituale, si purifica, indossa abiti di seta bianca e viene accompagnato da una processione al primo santuario dove accede da solo, assaggia riso e sake in comunione con Amaterasu. La stessa cosa verrà ripetuta nell'altro santuario e il rito verrà concluso all'alba, e lui sarà diventato il nuovo Tenno ("imperatore").

    Il tempo veniva diviso in due grandi fasi: il tempo della natura sopita e quello della natura creatrice.
    Collegati al Capodanno, allo Shogatsu in inverno e al Bon in estate. In coincidenza con i periodi di minor lavoro. Lo Shogatsu avviene in un periodo in cui la natura è ferma a causa del freddo e l'attività agricola è al minimo, mentre il Bon avviene in tarda estate quando le spighe di riso sono grandi e forti e non vi è la necessità di lavorare i campi.
    Questo rapporto tra periodo di lavoro e minore attività rituale può essere ricollegato alla dicotomia natura-cultura nella dimensione temporale. Come vi è uno spazio ordinato vi è un tempo ordinato.


    • I riti e la vita dell'uomo.
    Lo schema dei rituali ricalca i ritmi della natura.
    I riti che scandiscono la vita sono di passaggio e sottolineano tre momenti principali:
    – una fase preliminare, di cerimonie di separazione dall'ambiente precedente;
    – una fase liminale;
    – una fase postliminare, l'accettazione dell'individuo nel nuovo gruppo sociale.
    Un'ulteriore distinzione si può fare in base allo status fra cui si passa. Se avviene tra categorie sociali ben definite e normali il rito si basa sul simbolismo dell'aggregazione al nuovo stato e accentua il ritmo della temporalità, proiettando il soggetto in avanti, verso il futuro. Se invece si passa da una condizione normale a un anomala e impura (come la malattia), il rituale è in negativo, imponendo un ritorno alla normalità, al passato.

    Al settimo giorno dal parto con una cerimonia viene dato il nome al neonato.
    Il trentunesimo/trentatreesimo (per le femmine) giorno dalla nascita, sanciscono anche la nascita ufficiale, presentando il neonato al tempio (Miyamairi).
    Il primo anniversario della nascita e il compleanno sono i seguenti, ma non corrispondono all'effettiva data della nascita bensì all'inizio dell'anno.
    Le feste del terzo, quinto e settimo anno di vita (Shichi-go-san).
    La transizione dall'adolescenza alla maturità i ragazzi vengono messi alla prova, con una sfida di concentrazione spirituale e resistenza fisica:
    – Hadakamatsuri: si svolge in inverno, i giovani vivono in isolamento rituale per alcuni giorni si radunano al tempio, dopo le offerte e la lettura dei norito inizia la gara dove nudi devono cercare di raggiungere e afferrare dei mochi appesi in alto, impossibili da raggiungere da soli, cosa che i giovani capiscono solo dopo una lunga lotta tra di loro per poi unire le forze e raggiungere l'obbiettivo insieme. I mochi vengono poi offerti al kami e spartiti tra gli iniziati, e ai giovani viene anche permesso di indossare l'abito cerimoniale da adulti per poi consumare insieme un silenzioso banchetto rituale.
    – Himatsuri: si svolge nei tempi di Kurama e Kumano. I giovani fanno una gara di corsa trasportando torce infuocate nudi, mettendo a dura prova la resistenza al caldo e al freddo.
    La cerimonia del matrimonio, in cui viene messo in rilievo il valore di scambio della donna e dei beni (Sansankudo). I coniugi si ritirano in una stanza e in presenza del kami si scambiano per tre volte delle coppe di sake, offrendole al dio. Il ruolo più importante è quello del nakodo ("mediatore") che ha combinato l'unione tra gli sposi, ha infatti il posto centrale durante il pranzo nunziale, fra marito e moglie. Il kami fa da contrappunto ad esso, in alcuni casi una statua del dio viene posta davanti al tavolo del banchetto (come a Kagoshima).
    Quando nascerà il primo figlio un nuovo ciclo andrà ad inserirsi all'interno del ciclo precedente.
    Al compimento dei sessant'anni avviene una festa per l'anziano che rinuncia alla carica di capofamiglia, ricalca quella per il bambino (Inkyo). Al raggiungimento dei settant'anni vie è un'altra cerimonia collettiva, d'introduzione alla morte e all'inizio della nuova esistenza nell'aldilà.


    • Il sacro e il quotidiano.
    La struttura del rito delinea anche una scansione nel fluire del giorno, nel suo avvicendarsi del tempo del buio e della luce.
    Il rito del Kojinkagura ne rivela la configurazione. Il capo religioso del villaggio che officia il rito trascorre la notte in meditazione, all'alba si purifica e fa lo stesso con lo spazio sacro. Il rito ha inizio all'imbrunire poiché la notte è il tempo del dio. L'officiante invoca i kami e porge loro offerte. Durante le ore notturne si svolgono danze, preghiere ed altri eventi. Il momento culminante si raggiunge con l'arrivo del nuovo sciamano, il Takutayu, il quale si inginocchia all'altare ed entra in trance permettendo alla comunità di comunicare il kami del villaggio. Durante la notte i giovani con addosso maschere impersonano gli oni, danzano intorno all'altare, coinvolgendo il pubblico, per poi venire scacciati alle prime luci dell'alba con un rito di esorcismo. Il mattino è nuovamente momento di purificazione, il kami viene portato in processione per il villaggio e a mezzogiorno si celebra un banchetto cerimoniale.
    (pag.102)

    La festa riflette quindi la ciclicità del tempo, la ripetizione dei gesti rituali ormai stereotipati va a definire il tempo e a frapporsi all'irripetibilità di ogni altro gesto. La festa inizia sempre con un rito di invocazione e accoglienza del kami e si conclude con la separazione e l'espulsione. I due mondi devono rimanere separati per poter essere in armonia, il rapporto tra il kami e gli uomini non deve essere permanente.


    • Il tempo come pienezza d'azione.
    Le concezini di tempi possono essere diverse, è l'azione che, codificata, lo crea.
    Il tempo acquista identità attraverso un evento che è stato scelto come caratterizzante di quel momento (tempo della luna nuova, tempo della prima neve, il tempo del raccolto ecc). Ovviamente questo non è l'unico che avviene in quel periodo, ma sembra riassumere perfettamente il tutto. Così anche le azioni sociali che marcano uno stesso tempo sono varie, ma ne viene scelta una sola, generale, come definizione.
    Anche il modo di definire la natura del tempo religioso si approfondisce. Il sacro si articola in precise relazioni con specifiche entità soprannaturali. L'estate è il tempo degli spiriti dei morti e degli antenati. In primavera e autunno la comunità e il dio si incontrano. L'inverno è il tempo dei mostri.
    Il tempo può essere anche classificato a seconda di chi compie un'azione specifica.


    • La scansione del rito.
    (pag. 107)
    Gli esseri malvagi vogliono entrare nel mondo degli uomini e la comunità è costretta a instaurare un rapporto di scambio per pacificarli e farli ritirare.
    Il contatto con il mondo "diverso" non può essere negato totalmente, ma non può essere lasciato libero. L'interazione deve quindi essere regolata e temporanea. Gli esseri malvagi vogliono entrare nel mondo degli uomini e la comunità è costretta ad instaurare un rapporto con loro, una volta realizzata l'unione il mostro diventa benevolo e si ritira di sua spontanea volontà.
    Questo è ciò che accade in un rito: la creazione e la fine di un contattato.
    Nelle cerimonie che segnano l'inizio del nuovo anno, la comunità accetta persone che si mascherano (da oni, namahage, akamata, kuramata ecc) in modo da incutere paura, confrontandosi con le immagini esplicite delle proprie angosce e pene.
    Nell'accogliere queste maschere l'autorità si confonde con i liminali che li impersonano, in questo modo il sacerdote purifica ed esorcizza, uccidendoli simbolicamente, facendo fuggire i figuranti dal tempio.
    Questo ritmo di unione-separazione scandisce il tempo sacro, e deriva anche dalla continua ripetizione di interazioni rituali, di accettazione del diverso e di rifiuto.
    Questa interpretazione può essere applicata al mito della creazione del mondo (e del tempo).
    (pag.111)


    • Il valore dei proverbi.
    La cultura giapponese ha tollerato lo svilupparsi di una categoria anomala: i vagabondi. Si trattava di persone che conducevano una vita errabonda, vivendo dell'ospitalità e della generosità degli abitanti sedentari. Il loro intervento, però, è fondamentale poiché portavano la storia e le notizie nelle comunità più distanti. Lo scopo delle loro narrazioni era di intrattenere, sia per ricambiare, sia per attirare l'attenzione ed aggiungere ai loro racconti insegnamenti religiosi o morali.
    Considerati comunque "anormali" venivano espulsi dalla comunità dopo poco tempo, ma i loro itinerari erano fissi e perciò tornavano nelle stesse comunità, negli stessi periodi.


    • Il calendario e il potere sul tempo.
    Il controllo del tempo era fondamentale, perché significava prevedere e dirigere le azioni sociali. Perciò era l'imperatore ad emanare il calendario ufficiale e vi era l'abitudine di segnare su questo le vicende quotidiane quel sovrano.
    Già nel periodo Nara erano stati istituiti degli uffici incaricati della redazione del calendario e della pratica dell'Onmyodo ("arte divinatoria"). Ogni anni, il primo giorno dell'undicesimo mese lunare era pubblicato l'almanacco ufficiale dell'anno nuovo, il Guchureki: scritto in cinese classico, copiato a mano e distribuito ai nobili e agli alti funzionari; l'anno era diviso in lune brevi e lunghe, vi erano segnati solstizi ed equinozi, le fasi lunari e del sole durante la giornata, le eclissi; vi erano annotazioni emerologiche, riguardanti la fortuna e la sfortuna giornalmente. I giorni e le ore potevano essere sia hare (chiari, puri) che kegare (impuri).


    • La divinazione e l'annullamento del tempo.
    L'attività divinatoria ha lo scopo di scoprire la specifica azione che dovrà essere compiuta in uno specifico momento per ottenere determinati risultati. Secondo alcuni è una prassi religiosa fondata su una concezione illogica o simbolica.
    Mentre il calendario stabiliva una temporalità generale, la divinazione individuava il tempo del singolo, la quale tendeva a svelare il futuro ed il destino di un uomo. Secondo una concezione la divinazione è infatti una prassi religiosa fondata su una concezione sacra (priva di logica) del tempo. Sembrerebbe essere una tecnica che organizza il tempo, che aiuta a prendere delle decisioni aldilà dei desideri.
    "Uranai", divinazione, deriva da "ura" che rimanda al significato di ciò che è nascosto.

    La tavola divinatoria è come un mandala, in cui l'universo è riprodotto nella forma di un momento di intuizione.
    La divinazione sarebbe sacra in quanto irrazionalità codificata, residuo di una mentalità primitiva.
    Il pensiero ying yang sarebbe una pseudo-scienza e la divinazione che lo utilizza insieme alle Cinque Fasi sarebbe una forma di sapere compiuta.

    Se si attribuisce alla divinazione il valore di un sistema di simboli, non si avrebbe la necessità di ricreare dei valori di razionalità. I simboli però sono inseriti in un contesto strutturato che li portano a trovare il proprio significato.
    La divinazione è un sistema concettuale che non fonda sulla verifica il criterio della propria validità. Al posto del vero e del falso si fonda su un principio di verosimile o possibile. Non utilizza il principio di causa-effetto, ma la relazione di analogia. La ricerca del vero non ha importanza, è sufficiente che le deduzioni siano coerenti; il vero non è una prerogativa assoluta ma relativa a uno specifico contesto.


    • Il senso dell'impermanenza.
    Nella cultura giapponese è sempre stato presente una sensazione di inquietudine e il desiderio di sfuggire al ritmo della circolarità.
    Il pensiero buddhista mette in luce questa angoscia con l'idea della circolarità del tempo e dell'impermanenza dei fenomeni, dove la morte non è né la fine né l'inizio di una vita eterna e tutto sottostà alla legge del karma.


    • Contro la logica del tempo: miira.
    Una modalità per annullare il tempo è l'auto-mummificazione in vita. L'asceta incorrotto, il miira, si oppone al naturale destino; rifiuta i rapporti sociali, le norma e i valori religiosi. Punta a diventare un corpo incorrotto, senza subire alcun mutamento.


    La morte.

    • Il corpo.
    Non è la morte ad essere contaminante, bensì il processo di decomposizione del corpo. Perciò viene posta grande attenzione alla realtà del morire.
    Il cadavere viene quindi negato.
    Il corpo (l'opposto del cadavere) viene considerato un elemento neutro e manipolabile, ma allo stesso tempo non può essere totalmente modificato perciò resta un dato naturale, un collegamento quindi tra natura e cultura.
    L'uomo è un corpo e ha un corpo, attraverso esso ha l'esperienza di sé, questa sua natura ambivalente gli permette di sfuggire alla sua origine naturale per diventare un significante culturale. Il corpo è visto come il punto di incontro fra macrocosmo, microcosmo e società.
    Addirittura il corpo dell'imperatore era considerato "corpo della nazione".


    • Purezza e impurità.
    La purezza è essenziale per entrare in contatto con dio, serve per essere in armonia con se stessi, la natura e gli dei.
    L'impurità invece rende odiosi di fronte alle divinità e diffonde il male. Tutto ciò che intacca l'unità del corpo è impuro, kegare.
    I fattori d'impurità sono: il sangue; le mestruazioni; la secrezione delle ferite; il sudore; lo sputo; il vomito; gli escrementi.
    Non è considerato impuro il sangue che circola nel corpo, bensì "neutro". L'impurità diventa tale quando fuoriesce dal corpo, minacciando la compattezza.
    Ad esempio il sangue, fuoriuscendo, si raggruma e confonde la linea di confine che separa interno ed esterno, mettendole in crisi.
    Il sangue, le secrezioni e gli escrementi non sono condannati come simboli di una condizione spirituale "corrotta". Infatti il rito di purificazione (Misogi) non consiste in una confessione di peccati, ma si tratta di un lavacro, in cui l'acqua porta via ciò che è fuoriuscito e riporta la superficie alla sua pulizia.
    Il sale e il fuoco purificano:
    – il sale conserva l'integrità, impedendo la putrefazione;
    – il fuoco distrugge l'anomalia.
    L'azione violenta sulla "natura" è percepita come una violenza sul corpo.
    (pag.157)


    • Il cadavere.
    Molte impurità non lo sono totalmente perché le situazioni non sono definitive. Il cadavere invece è l'apice dell'impurità poiché rappresenta una situazione definitiva.
    Non è la morte ad essere contaminante, ma il cadavere a causa della putrefazione del corpo. Esprime un mutamento e va ad intaccare il modello ordinato della società.
    Il cadavere va quindi eliminato.
    Si tendeva persino ad emarginare le persone che si occupavano della salma di mestiere, i Burakumin. Venivano esclusi dalla società come fuoricasta, non potevano avere relazioni sociali nella norma, vivevano in comunità separate e povere, in terreni paludosi o sulle rive dei fiumi, comunque in zone selvatiche. In città erano relegati in zone non riportate sulle mappe e i loro nomi non erano nei registri comuni; non esistevano oppure venivano considerati al pari di mostri o animali.

    C'erano poi asceti che ricercavano la santità nel disprezzo di ordini etici e norme di purezza, come gli adepti del Tachikawaryu (una corrente "eterodossa" nel buddhismo tantrico, fondata probabilmente all'inizio del XII secolo da un monaco della scuola Shingon). Le loro teorie erano tramandate in segreto da maestro a discepolo.
    Vivevano come vagabondi, praticando la loro disciplina nei cimiteri, nelle zone in cui venivano cremati i morti. Spesso erano nudi, o indossavano un sudario rubato a un cadavere; portavano al collo ossa umane o le annodavano tra i capelli.
    Si dice avessero gli occhi rossi. Parlavano in modo brusco e maleducato, avevano uno sguardo febbrile e si esprimevano con gesti offensivi.
    Questo asceta veniva considerato un santo, sorgente di grandi poteri. In lui non vi era differenza fra divino e umano, fra puro e impuro. Non si sentiva vincolato da nessuna legge e si poneva al di là di ogni scelta etica.


    • Riti di separazione del morto.
    Il rituale funerario sottolineava il distacco del morto dal mondo dei vivi.
    Il cadavere veniva posto in una camera separata, esclusa dalle attività normali della vita giornaliera. Gli venivano chiusi gli occhi, la bocca e le orecchie per poi coprire il volto con un panno bianco, negandogli in questo modo ogni possibilità di interazione con i vivi.
    La comunicazione tra vivi e morti consisteva in formule rituali che non stabilivano un ricongiungimento, ma sancivano la separazione. La cerimonia del Mitama utsushi aveva il fine di aiutare lo spirito a separarsi dal corpo in modo definitivo. (pag.166)
    Il corpo veniva lavato dai parenti, così come alla sua nascita, veniva rinchiuso in una bara, talvolta anche avvolto nel sudario e legato (doppia sepoltura). Veniva poi distrutto con la cremazione e le ceneri chiuse in una tomba di pietra. La processione che accompagnava il morto verso il cimitero, tornando verso la casa, percorreva una strada diversa, così che l'anima del morto non potesse ritrovare la strada e si perdesse definitivamente.


    • La morte di Izanami.
    Alla creazione del mondo segue il racconto della morte.
    (pag.168)
    La dea Izanami muore dando alla luce il dio del fuoco e scende negli inferi (Yomi). Izanagi la insegue per riportarla indietro e completare l'opera di creazione del mondo. Ma lei ha già assaporato il cibo dei morti e può tornare solamente a condizione che Izanagi non la guardi. Izanagi disubbidisce, vede il corpo putrefatto della dea scatenando la sua ira. Fugge dalla caverna degli inferi ed ostruisce l'accesso, ma Izanami giura di portare la morte nel mondo dei vivi.

    Il racconto è incentrato sulla disubbidienza; oltrepassare i limiti e non rispettare le regole assume un aspetto rischioso se non impossibile, dove la tentazione porta solo alla disfatta e all'orrore.
    La struttura narrativa è divisa in due parti: l'errore del dio determina il rovesciamento della situazione. (pag.169)
    Prima non c'erano barriere, il mondo non conosceva la morte. Un fiume nasce tra i due mondi, lo stesso in cui il dio si immergerà per purificarsi e da questo gesto nasceranno gli dei della luce da cui avranno origine gli uomini.


    • La doppia sepoltura.
    L'impurità diminuisce quando il processo di putrefazione ha consumato tutta la carne e ha raggiunto lo scheletro. Le ossa rappresentano una realtà stabile, hanno quindi qualità positive perché rappresentano la struttura fondamentale della vita e diventano un modello della condizione della morte.

    Nel Giappone antico (e ancora oggi in alcune zone) veniva celebrato il rito della doppia sepoltura. Il cadavere veniva sotterrato in modo provvisorio e riesumato dopo tre anni, al completamento del processo di putrefazione, le ossa venivano ripulite per poi essere sepolte in un altra tomba.
    Nella prima sepoltura (Umebaka) tutto è disordinato, connotato da simboli di precarietà. Il cadavere viene sotterrato in una zona a parte del cimitero, avvolto in un sudario e a contatto con la terra, così che si corroda più facilmente. In questa zona le tombe sono disposte a caso, dando l'impressione generale di uno spazio abbandonato e persino le tavolette con il nome inciso sono fatte di un materiale deperibile.
    La seconda sepoltura (Mairibaka) da invece un'idea di ordine e stabilità. Le ossa vengono pulite e riposte in una giara non più fragile. Il nome gli viene inciso in modo indelebile e l'urna, che talvolta ha la forma di una casa, viene collocata in una tomba del cimitero principale, inserito in uno spazio riservato ai defunti del nucleo famigliare.
    Dopo trentatré anni le ossa verranno riesumate, cremate e poste nell'urna comune degli antenati di famiglia.


    • Lutto.
    Il comportamento dei parenti in lutto è vincolato da norme culturali ambigue, che impongono di negare simbolicamente la vita. Devono: interrompere le relazioni sociali e non crearne di nuove; vivere in segregazione; astenersi dal partecipare alle cerimonie comunitarie; interrompere l'attività lavorativa; astenersi dal manifestare allegria; vestirsi di bianco e di nero; non possono instaurare un nuovo rapporto di parentela con un'altra famiglia (come il matrimonio).
    (pag.173)
    Il termine di questo periodo di lutto coincide con il completarsi del processo di putrefazione, al quarantanovesimo giorno dal funerale. Solitamente la fine viene sancita definitivamente con il primo bon, durante il rito collettivo per accogliere e venerare le anime degli antenati; le famiglie in lutto celebrano una cerimonia particolare, chiamata Hatsubon, in cui viene posto un altare dedicato al defunto al centro della stanza principale della casa dove vengono disposte varie offerte. A causa della sua condizione precaria nell'aldilà, lo spirito viene considerato impuro e viene immaginato come in preda all'angoscia e all'incertezza. Con il bon l'anima supera il rito di passaggio e diventa Niibotoke, iniziando il processo di aggregazione al gruppo degli altri antenati; il suo status cambia, divenendo uno spirito benevolo. Al termine del rito tutti i defunti sono invitati al tornare nel mondo ultraterreno, ma il niibotoke può prolungare la sua sosta (solamente al primo bon) fino all'imbrunire del giorno seguente, con la cerimonia dello Shoryo okuri in cui gli abitanti del villaggio costruiscono delle piccole imbarcazioni di paglia su cui vengono poste le offerte precedentemente poste sugli altari delle case che vengono poi abbandonate alla corrente, per aiutare gli spiriti durante il loro lungo viaggio.


    • Gli antenati.
    Diverse sono le categorie di spiriti, gli antenati (Senzo) fanno però parte di un'altra classe.
    Sono considerati antenati tutti coloro che in vita erano capifamiglia, continuatori della linea di discendenza diretta detta "Ie" e deve aver completato tutte le fasi fondamentali del ciclo della vita (in particolare deve essersi sposato e aver avuto un figlio). Lo ie ha un'importanza primaria, come entità sociale. La posizione all'interno della famiglia in vita stabilisce quella nell'aldilà.
    L'anima non raggiunge immediatamente la condizione di antenato, solo dopo una serie di riti. Lo spirito del defunto che ha appena esalato l'ultimo respiro (Shirei) è soggetto a varie precauzioni rituali poiché attraversa una fase critica del percorso, così i riti si susseguono fino al primo bon, momento in cui raggiunge una condizione più stabile. Diventa parte del gruppo di antenati e viene considerato benevolo (è uno spirito Sorei), i rituali vanno diminuendo.
    L'ultimo rito è il Tomuraiage che segna il raggiungimento dello stadio definitivo di antenato (Niisenzo, "nuovo antenato").
    Trascorsi molti anni lo spirito verrà venerato come una divinità perfezionando questa condizione fino all'annullamento della sua identità, divenendo un Furusenzo.
    (pag.180)

    I figli successivi al primo maschio sono esclusi dalla successione, dal tronco principale della famiglia e anche dalla categoria degli antenati. Questi fonderanno un ramo secondario (Bunke) quando si sposeranno e metteranno al mondo un erede, diventando antenati di questo nuovo nucleo. Se ciò non avviene saranno un peso e una minaccia per la famiglia (a livello economico che a livello di successione poiché un secondo maschio potrebbe essere uno sfidante per il primo figlio).
    Anche le mogli dei capifamiglia sono considerate antenati.

    Il culto degli antenati è un dovere della famiglia, non un atto di devozione.


    • Spiriti dei morti, spiriti divini.
    Per i giapponesi i morti raggiungono lo stato di buddhità perché hanno tradotto l'idea che gli spiriti degli antenati con il tempo si purificano, acquisendo una natura divina. Infatti gli antenati vengono detti "hotoke", cioè buddha. Si potrebbe dire che l'antenato è l'anello che unisce le categorie di uomo, dio (kami) ed essere illuminato (hotoke), ed infatti tra senzo, kami e hotoke vi sono delle relazioni di somiglianza. L'antenato viene facilmente identificato sia come hotoke che come ujigami (divinità tutelare del villaggio): ponendo la tavoletta con il nome del defunto nell'altare degli dei (Kamidana); piantando un sakaki sulla tomba; offrendogli sakè (offerta riservata agli dei).

    Il Toshigami viene venerato sia come dio dell'anno nuovo che come simbolo di tutti gli antenati, senza alcuna contraddizione. Rappresenta due realtà:
    – nel suo aspetto di dio del tempo preannuncia ciò che di buono ci sarà nell'anno che viene;
    – nel suo aspetto di antenato esprime una visione ottimistica del passato.
    Nelle rappresentazioni dei grandi kagura invernali, l'attore che interpreta il Toshigami indossa una maschera da vecchio (Ojiisan, "nonno"), il quale narra episodi passati della vita del villaggio in modo ironico e benevolo. In altri riti invece appare in sembianze più inquietanti, quelle dell'Okina, la cui maschera laccata in bianco o nero, presenta una fisionomia più aspra e fredda, un sorriso enigmatico, ricordando la morte. Il Toshigami viene infatti invocato anche come Mitamasama (spirito del morto) e ad esso vengono presentate appunto offerte definite "cibo dei morti" (Mitamameshi).


    • La festa del ritorno dei morti.
    (pag.188)
    Il bon è la più importante cerimonia collettiva per venerare gli spiriti degli antenati. È l'abbreviazione di "urabon" che deriva dal sanscrito "ullambana", nome del "sutra dell'estremo dolore".
    Il bon unisce usanze derivate dal buddhismo indiano e centro-asiatico, dal pensiero taoista e confuciano.
    Fino alla fine del XII secolo il culto rimase ristretto all'élite e ai monaci. Oggi invece si inserisce in un insieme di riti di esorcismo delle anime dei morti inquieti.

    Il bon spesso viene confuso con il tanabata, una festività in cui si dice che due stelle, Vega e Altair, separate, si possono incontrare solamente in questa notte (del tanabata).

    Il bon non solo ristabilisce un'unione fra antenati e famiglie, ma si rafforzano anche i legami tra le varie famiglie tra loro. Le donne sposate vanno a trovare i genitori, i parenti si scambiano visite e doni. Questo è detto ikebon, il "bon dei vivi".


    • Iconografia dell'aldilà.
    Le rappresentazioni iconografiche dell'aldilà esprimono un doppia tematica: prima un pericoloso itinerario nel selvatico, in cui avviene la trasformazione dell'anima; alla fine del viaggio appare una costruzione, un luogo sereno e ordinato, che rappresenta la condizione definitiva della morte; varcata la soglia della morta accade che vi sia una discesa sotterranea verso lo yomi no kuni; l'entrata negli inferi svela sempre il carattere "disumano" del luogo.
    Il viaggio verso il paradiso è descritto come difficile e pericoloso e l'anima può essere vinta dalla paura.
    Si dice che la terra paradisiaca possa essere raggiunta tuffandosi nel mare e abbandonandosi alle correnti marine lungo la costa di Kumano, o calandosi di alcune grotte, o immergendosi in un lago incantato.


    • Il giudizio dei morti.
    Alcuni racconti descrivono il viaggio di persone che sono andate nell'aldilà e sono riuscite a tornare indietro.
    (pag.207)
    Solitamente il morto viene convocato per essere giudicato da Enma, il re degli inferi. Alcune figure si trovano li per aiutare il morto nel suo cammino verso l'ultima dimora. Questo compito spesso spetta ai bodhisattva Jizo, che interviene come avvocato difensore delle anime. Questo è un antitesi di Enma (un guerriero dall'aspetto feroce che incute timore, brandisce una spada e quando parla lo fa urlando), un monaco piccolo e mite, che si appoggia sul suo bastone e quasi sussurra le sue parole.
    In questi racconti non si passa mai del risultato del giudizio dei morti, ma è logico pensare che il morto sia accettato nell'aldilà.


    • Il viaggio estatico nel mondo ultraterreno.
    I vivi sentono il rischio che lo spirito del morto possa tornare fra loro, per questo alla morte interviene lo sciamano che calma lo spirito smarrito e lo convince ad accettare la sua guida. Insieme si incamminano nell'aldilà aiutandolo ad essere accolto tra gli altri spiriti.

    Spesso il compito di fare da tramite tra vivi e morti è affidato a donne cieche, le Itako. Queste donne vivono una vita appartata e vengono chiamate espressamente nella casa del defunto per la séance. In certi periodi dell'anno si riuniscono tra loro e camminano di villaggio in villaggio, svolgendo riti per le anime.
    Il ventiquattresimo giorno del sesto mese lunare, tutte le itako si riuniscono sull'Osoresan per accogliere i morti che tornano.
    Il rito dello Shinbotoke no kuchiaki è dedicato ai morti recenti: avviene di notte, al buio, nella stanza più interna della casa; la itako si informa sulla vita del morto e di alcuni parenti prima di dare inizio al rito; intona una lunga nenia; a volte sfrega le mani sul suo grande rosario (Iratakajuzu), scuote vicino al capo le Oshirasama (statuette ricettacolo del suo spirito guardiano), percuote l'Azusayumi (arco di catalpa) con una bacchetta dalle corde tese; invoca kami con cui si scusa per il rito e chiede protezione; invoca l'anima del morto per fargli da guida, lo costringe ad entrare nel suo corpo e a parlare con la sua voce, lo consola; lo spirito da consigli e predice il futuro ai familiari; con l'arrivo della luce il morto viene rimandato nel suo mondo, affidato all'antenato più vicino a lui così che continui a stargli vicino; anche i kami vengono allontanati.
    Questo rito strema la itako, ma permette ai parenti di controllare lo spirito del defunto e al morto di essere rassicurato. Lo scambio non è equilibrato però, poiché va tutto a favore dei familiari. È diverso quando si parla di uno spirito benevolo, dove lo scambio va a favore del morto, il quale rassicura i vivi e gli da forza (sono i vivi a lamentarsi, mentre nel caso precedente era il morto a farlo).
    La itako ovviamente finge questo stato di dissociazione, recita a memoria formule rituale, norito, brani di sutra a seconda della situazione in cui si trova. Viene considerata una sciamana (oltre per gli oggetti che usa, le pratiche del suo apprendistato, il simbolismo a cui è ricollegata) per la sua funzione di guida dell'anima.

    Gyo, pratiche ascetiche, tecniche fisiche e psichiche per raggiungere e controllare stati alterati di coscienza per mediare tra vivi e morti. Non sono altro che pratiche di purificazioni portate ai limiti di difficoltà e sopportazione, le quali hanno lo scopo di aprire la mente ad una visione interiore più intensa. Servono a vincere se stessi, accrescere la propria capacità di concentrazione, sviluppare energia mentale e avvicinarsi al dio.
    Caratterizzati da digiuni, rinuncia al sonno, abluzioni in acqua gelida, controllo del calore, recitazione continua di formule, conducono perdita di lucidità e dell'equilibrio interiore, talvolta inducendo uno stato semi-ipnotico, svenimento e dissociazione mentale.
    Tutte le fasi dell'apprendistato sciamanico si riflettono nel simbolismo del cammino dell'anima nel mondo dei morti, è perciò considerata una conoscenza della morte.
    (pag.216)
    Ogni volta che entra in trance è come se morisse ancora. Lo sciamano ha vissuto e vive la morte.
    Come mediatore viene considerato socialmente emarginato:
    – può ritrovarsi ai vertici della scala sociale (come le antiche imperatrici esperte dell'estasi);
    – può essere rifiutato ed espulso (come le sciamane vagabonde e fuoricasta).


    • I morti inquieti.
    Dopo la morte alcune anime non potranno mai varcare la soglia dell'altro mondo. Né la società dei morti né quella dei vivi le vogliono.
    La loro angoscia è la vera negazione del paradiso. Hanno rifiutato la vita o l'hanno amata troppo, per questo sono morti in malo modo. Infestano i margini del mondo dei vivi e cercano di penetrarvi. Si pensa risiedano nel sottobosco o nelle zone scure.

    Fanno parte di questa categoria le anime dei bambini morti (Mizuko) e gli spiriti senza discendenza (Muenbotoke).
    Lo spirito dei muenbotoke erano già emarginati in vita, esclusi dalla linea di successione, soli. La sua solitudine continua nell'aldilà, priva di legami, senza nessun erede che possa curarsi dei riti alla sua memoria e guidarlo nel mondo degli antenati.
    I mizuko invece dovevano entrare a far parte della famiglia e continuarla, invece non hanno potuto.
    Entrambi rappresentano il fallimento dell'etica della famiglia e della società.

    I Goryo invece sono presenza angoscianti, che aprono varchi nei confini della vita e ne minacciano la sicurezza. Sono ombre di amanti colpevoli, guerrieri che ancora sognano la gloria, cortigiani assetati di potere, donne tradite negli affetti, i quali hanno subito una morte violenta ed improvvisa.
    Si usa pensare che la loro morte fosse inevitabile. Ma i vivi sentono che il loro destino è stato ingiusto, seppur li disprezzino li considerano comunque innocenti, non hanno commesso alcun reato, la loro sfortuna sono stati solamente gli eventi più forti di loro che si sono susseguiti nella loro vita. Sono fantasmi che ossessionano i loro persecutori. Non riescono ad abbandonare il mondo e l'oggetto del loro desiderio.
    Appaiono come fantasmi (Yurei) dalle forme mostruose e terrificanti. Possono possedere cadaveri o i vivi fino a portarli alla morte per malattia. Si nutrono di rifiuti e sono carichi d'odio e desiderio di vendetta, infatti minacciano gli uomini con le loro maledizioni (Tatari).

    Gli spiriti inquieti hanno delle caratteristiche tali da essere simbolicamente associabili ai Mushi (insetti, vermi).
    (pag.222)
    Nel pensiero buddhista gli spiriti inquieti sono condannati a vivere nel livello più basso del ciclo delle rinascite.

    Sono Gaki, spiriti con il ventre gonfio, collo strettissimo, sempre affamati.
    La prima reazione della società è quella di negare questi spiriti e allontanarli, i riti infatti attuano un'esclusione. I muenbotoke non hanno tavolette sull'altare degli antenati né un culto giornaliero a loro dedicato; durante il Bon viene eretto per loro un altare fuori dalla casa (Aradana "altare grezzo" o Hokodana "altare separato"); giungono in momenti diversi dagli antenati e a loro viene offerto solo riso crudo e acqua.
    Vi è un rito collettivo per queste anime, il Segaki ("dare agli spiriti affamati"): si svolge di notte, sul margine esterno della casa nel confine tra cortile e costruzione; l'officiante (monaco) recita i sutra senza accompagnamento musicale e offre agli spiriti solo acqua purificata.
    Durante il Setsubun, la veglia rituale che precede l'inizio della primavera, si prega il dio della terra, quello del focolare e vi sono pratiche divinatorie, ma particolare importanza ha l'esorcismo dei demoni e degli spiriti inquieti. Durante la stessa notte, nel tempio, si svolge il rito dell'Onyarai in cui figuranti con indosso maschere mostruose creano scompiglio per poi venire "esorcizzati" da un monaco.

    Questi spiriti portano malattie, pestilenze e vari altri disastri e sventure. La morte che infliggono è violenta e improvvisa e crea altri morti inquieti. È un circolo vizioso perché più morti causano più vengono allontanati, e più i vivi li respingono più gli spiriti si fanno aggressivi. L'unico modo per porvi fine è stabilire un equilibri ed inserire questi spiriti nel normale processo di morte. La itako a questo punto è un'indispensabile mediatrice poiché aiuta ad ascoltarli e ad accettare un rapporto di scambio.
    I muenbotoke iniziano ad essere trattati come veri antenati e parallelamente nella comunità si svolgono riti come l'Okatabuchi, il Koto koto, il Kapa kapa, il namahagematsuri, in cui i giovani si mascherano da mostri o fantasmi e visitano le case del villaggio.
    Per i goryo è più complicato poiché devono essere ricompensati, perciò gli si da simbolicamente ciò che la morte gli ha sottratto, e gli viene attribuito un status più importante nella gerarchia sociale dell'aldilà, così da essere venerati nei grandi riti estivi come Wakamiya, giovani kami o Tenjin ("divinità celeste"). Il goryo placato diventa un essere bono e protettore.

    Nell'antichità il nenbutsu era considerato una potente forma rituale contro gli spiriti inquieti, ma soprattutto i goryo, il cui scopo era quello di condurre le anime da Amida per farle entrare nel paradiso della Terra Pura.
    (pag.227)


    • I culti del rimorso.
    Nella seconda metà del '900 si andò formando una nuova pratica di culto, il Mizukokuyo, per placare gli spiriti dei bambini abortiti.
    In Giappone era proibita l'interruzione della maternità, l'aborto e l'infanticidio non erano ben visti. In passato le anime dei bambini morti subito dopo il parto veniva spesso dimenticata, non vi erano tombe per loro, si usava "affidarlo" al bodhisattva Jizo, perché lo facesse rinascere in condizioni favorevoli.
    In questo contesto infatti fu rielaborata la figura del bodhisattva Jizo.
    Nell'immaginario tradizionale era lo spirito della compassione che vigilava su tutti i sei mondi delle rinascite per proteggere e salvare tutti gli esseri senzienti in pena. Si usava porre le sue statue lungo le strade e ai confini del villaggio. La gente cominciò ad abbinare la sua figura con quella di Dosojin, il dio dei crocevia, una divinità della buona sorte e della fertilità (per questo la sua forma è fallica). Così il Jizo si trasformò in una figura che benediceva la vita e donava la fertilità, che piangeva la morte dei bambini "mai nati".
    Questa manipolazione non fu altro che una strategia per scoraggiare l'aborto e colpevolizzare la donna.

    Lo spirito del bambino morto non si fa più sparire, è solo e triste, e si comincia ad usare la parola Mizuko ("bambino d'acqua"), poiché il feto è associato al liquido amniotico in cui si trova e al quale si spera ritorni nella prossima rinascita; la sua natura è rimasta liquida, informe, un fantasma, poiché non è mia stato "concreto".
    Si usa dedicare allo spirito del bambino un tova, una barra di legno a forma di stupa stilizzato, in cui venivano scritte parole di speranza per la sua rinascita.
    Spesso davanti alle statuette dei Jizo vengono ammonticchiati dei sassolini, per aiutare il bambino nell'aldilà; ciò serviva a farne degli stupa che per metta loro di raggiungere l'altra rinascita. Altre volte si dedica un ema al bambino, una tavoletta di legno in cui si scrivono i propri desideri e speranze.

    L'azione vendicativa dello spirito dell'aborto non cerca di vendicarsi solo contro la madre, ma si scaglia anche contro gli altri membri della famiglia, specialmente con gli eventuali nuovi figli.
    Se la donna non è sposata, si dice che le faccia perdere la capacità di concepire, di trovare marito, che le faccia venire malattie come tumori all'utero o al seno, faccia ammalare i suoi parenti.
    Se la donna è sposata, si dice che la faccia diventare frigida, provochi l'infedeltà del marito, porti malattie e disagi psichici negli altri figli e provochi incidenti ai famigliari.

    Le norme rituali collegate alla morte dei bambini obbligano la donna a ricordare l'evento traumatico, senza poterlo elaborare con il tempo.
    La madre che ha abortito si sente colpevole verso il figlio e i suoi parenti per tutte le eventuali disgrazie.
    Il mizukokuyo crea un circolo vizioso di dolore.

    Certi ideali etici tradizionali sono rimasti, nonostante i cambiamenti sociali e all'uguaglianza dei sessi di fronte alla legge, ma il discorso culturale sulla donna non cambiò mai.
    La nuova forma di culto da l'aborto per scontato e lo utilizza come strumento per punire la donna della trasgressione sessuale a monte.


    • Il suicidio rituale.
    Darsi la morte è un atto di perfezione spirituale in cui l'asceta offre il proprio corpo alle fiamme.
    Immolarsi col fuoco è una scelta a lungo meditata, giustificata e realizzata tramite un rituale.
    (pag.244)
    Gli asceti affrontarono impassibili il dolore, con un incredibile controllo del corpo e della mente, mantenendosi composti nella posizione della meditazione.
    Colui che si immola nel fuoco invece è un santo: libero e indifferente, realizza il voto di offrirsi totalmente al Buddha per la salvezza di tutti. Il corpo si carica di tutta l'impurità per essere purificato dalle fiamme, le quali poi rigenereranno la vita.

    Durante l'epoca Tokugawa, il suicidio fu ritualizzato.
    Chi commette seppuku agisce per se stesso, risolve una situazione senza via d'uscita, serve ad espiare un errore o una colpa. In questo modo il suicida recupera la sua dignità, esalta la sincerità del suo cuore e dimostra il suo coraggio. In questo modo diventa il vincitore.


    • L'auto-mummificazione.
    L'auto-mummificazione in vita ha lo scopo di realizzare la perfezione della mente e del corpo. L'asceta si ritira in solitudine, praticando tecniche di purificazione e di meditazione. Inizia una progressiva astenenza dal cibo normale, eliminando la carne, il sale, i cibi cotti e poi i cinque cereali, il riso, il granno, il miglio, l'orzo e i fagioli. Per cinque anni si ciba soli dei prodotti delle conifere fino ad arrivare al digiuno completo, in cui gli è permesso solo id bere acqua.
    Si fa seppellire quando è ancora vivo e disseppellito poi dopo tre anni. Se il corpo è rimasto intatto, diventa un miira, una mummia. Viene profumato d'incenso, vestito di ricchi paramenti sacri e racchiuso in un tabernacolo.
    Questa pratica è l'opporsi al naturale destino dell'uomo. Egli è morto e allo stesso tempo vivo.
    Mantiene il corpo perfettamente integro, senza secrezioni naturali, superando così la fase pericolosa del cadavere, l'anomalia. È però anch'essa un'anomalia rispetto ai processi naturali.
    La santità è testimoniata dalla perfetta preservazione del corpo e da un rifiuto della morte. La convinzione alla base della pratica è che il mondo possa essere salvato. La salvezza non è una fuga nell'aldilà, ma è possibile in questo tempo.
    Le leggende dicono che un giorno, quando il tempo sarà giunto, questo si sveglierà.


    Il potere.

    • Gli dei.
    I kami sono entità soprannaturali misteriose, con potere di creare e di distruggere.
    Vi sono divinità celesti (Amatsukami), antropomorfe, protagonisti dei miti come Izanami, Izanagi, Amaterasu, Susanowo e Okuninushi no kami.
    Poi vi sono le divinità della terra e della natura (Kunitsukami), più umili, ma maggiormente radicati nella fede popolare, come Yama no kami, Ta no kami e Inari. Le divinità legate alla natura coltivata mettono in relazione il sacro e l'uomo. Il Ta no kami ad esempio viene raffigurato come un uomo panciuto, benevolo e saggio, con una ciotola di riso e un cucchiaio nelle mani; la sua figura presenta una sagoma fallica che lo associa alla fertilità dei campi e alla virilità.
    Inari, il dio del riso, e i suoi messaggeri, le volpi Kitsune con il tempo vanno a connettersi con il commercio (Inari diventa il dio del commercio).
    L'ujigami tutela il territorio e coloro che vi risiedono, e gli ujiko sono i suoi "figli" terreni. La sua funzione è ristretta alla comunità, è l'oggetto di culto esclusivo delle persone unite da vincoli di parentela e di stanzialità nello stesso territorio. Gli estrani al gruppo lo sono anche per il dio, che invece viene venerato come antenato.

    Ogni divinità ha in se una forza detta "Tama": talvolta violenta e distruttiva (Aramitama), altre volte benefica (Nigimitama). Sta a l'uomo controllare questo potere attraverso i rituali, i quali hanno potere di pacificare il dio, ma solo se perfettamente eseguiti.
    La stessa energia è presente anche negli uomini, detta Tamashii, che potremmo tradurre come "anima".
    I Numi tutelari (anime di antenati che, purificate, diventano protettori della serenità e del benessere della famiglia) vengono considerati come manifestazioni degli dei nella natura. Si tratta di boschi, cascate, alberi secolari, rocce che, segnati da una corda di paglia (Shimenawa), costituiscono uno spazio sacro in cui l'uomo può cogliere la presenza dell'assoluto, lasciandosi assorbire dalla profonda bellezza della natura. L'uomo può percepire il divino attraverso un processo emozionale. I kami si possono manifestare spontaneamente, spesso attraverso gli sciamani che riescono a "svuotarsi" per permettere ad esso di possederli e manifestarsi agli uomini.

    I primi segni di interazione tra buddhismo e la religione giapponese si hanno verso la fine del VII secolo. Gli Hijiri (religiosi itineranti) e gli Ubasoku (asceti) presero ad abbinare le pratiche meditative, i riti del buddhismo e la tradizione dei kami, le tecniche estatiche e le pratiche di meditazione taoiste. Questa interazione divenne ufficiale quando sorsero i santuari-templi (Jinguji).
    L'idea era che i kami fossero prigionieri del ciclo delle rinascite, inferiori al Buddha, perciò venivano letti sutra in loro favore, per renderli pacifici e portarli nel regno dell'illuminazione.
    Nel IX secolo i kami iniziarono ad essere interpretati come le "manifestazioni" dei buddha e bodhisattva (considerati "forme originarie").
    Il buddhismo si appropriava in questo modo di tutta la ricchezza della spiritualità autoctona e si radicava nella cultura giapponese.
    Il dharma si diffuse rapidamente, probabilmente per la credenza che quella fosse l'epoca in cui gli insegnamenti iniziavano a sparire, perciò i buddha rivelavano la loro perfezione manifestandosi come kami, per rendere il messaggio adatto al livello di comprensione delle menti offuscate.
    Nei periodi classico e medioevale si pensava che l'uomo fosse soggetto a influenze sia naturali (yin e yang, le Cinque Fasi, pianeti e stelle) che soprannaturali (Buddha, spiriti dei morti). Queste forze, rivelate da oracoli e divinazioni, erano controllate e dominati con i riti.

    Ogni entità divina era venerata come la combinazione simbolica di molteplici aspetti. I kami, venerati come divinità ancestrali, erano sì considerati manifestazioni dei buddha, ma acquisivano maggior forza nella legittimazione della gerarchia del potere.
    Il Buddha supremo, la verità del Dharma, non poteva che essere equiparato alla dea Amaterasu.
    I riti shintoisti e le pratiche buddhiste si andarono intrecciando, richiamandosi l'un l'altra, senza mai assimilarsi. Non tutti i kami divennero manifestazioni dei buddha e altri, pur essendolo, mantennero le loro identità di kami. Fra i fedeli rimase sempre chiara la distinzione tra le due e negli anni, si susseguirono conflitti per la costruzione di un'identità più forte a discapito dell'altra.
    (pag.264)
    Con la necessità di fortificare il potere ereditario della dinastia regnante (legittimato proprio dallo shinto), arrivò il divieto di utilizzare simboli buddhisti nei giorni delle festività shintoiste e nei luoghi di culto della famiglia imperiale.
    Ancora oggi caratteristica dell'esperienza religiosa giapponese è il che l'uomo possa credere e praticare diverse fedi e culti contemporaneamente. (pag.265)


    • Lo shinto e l'ideologia nazionalista.
    (pag.269)
    Nello "Shinto di stato", costruito per essere una tradizione religiosa perfetta, erano presenti il culto degli dei della natura, la venerazione per gli antenati, le norme di purezza, ma la visione d'insieme risultava falsata. Una realtà del genere non era mai esistita, come non era mai esistito il "puro shinto", diversamente da quanto il governo andava proclamando. Si diceva che il Kojiki (raccolta di miti che fosse il fondamento teologico della spiritualità giapponese, in realtà letto da pochissimi da secoli (inoltre le basi dello shinto non erano fondate su testi sacri). Nei primi decenni del Novecento venne rielaborata la figura degli ujigami: la nazione fu comparata al villaggio natìo, Amaterasu fu venerata come l'ujigami del Giappone e con lei l'imperatore, suo diretto discendente (il vero dio della terra).
    L'origine divina dell'imperatore fu enfatizzata per legittimarne un nuovo potere politico. Così il mito shinto della nascita del cosmo fu rielaborato in un dogma nazionalistico e razzista (da universale quale era). Idee che furono insegnate nelle scuole e ogni dissenso messo a tacere.
    Il kokutai ("il corpo della nazione") fu identificato come il corpo sacro dell'imperatore e i giapponesi assumevano così una natura divina, mentre gli altri popoli venivano visti come inferiori e il Giappone si faceva carico della sacra missione di dominare il mondo e guidarlo alla salvezza. Giustificazione poi usata durante le invasioni dei giapponesi.
    Il governo istituì un'organizzazione centrale nazionale per garantire l'ortodossia della fede shinto. Lo scopo era quello di creare un'unica dottrina da imporre come religione di stato. Durante l'era Meiji il governo mise sotto controllo i santuari, i sacerdoti e i riti shinto. I sacerdoti ebbero l'obbligo di sottoporsi a un esame di teologia in cui molti furono bocciati poiché non conformi all'ideologia imperiale, così vennero soppresse anche antiche tradizioni locali.
    L'antitesi dello shinto divenne il buddhismo, bollato come religione straniera (seppur fosse diffuso in Giappone dal VI secolo), moltissimo monasteri vennero distrutti, i monaci perseguitati e spesso radiati.
    La fede religiosa si confuse con la fede politica.


    • La gerarchia religiosa.
    Il Miyaza è un'organizzazione religiosa che comprende i capi delle famiglie più antiche e/o ricche del villaggio.
    Seppure il carattere strettamente religioso dei loro doveri, il gruppo ha sempre cercato di mantenere il monopolio del rapporto fra la comunità e i suoi dei. Fissavano il calendario rituale della comunità; decidevano i giorni di lavoro e quelli di riposo; stabilivano, organizzavano e celebravano i riti, pagandone anche le spese.
    Il rito più importante è la cerimonia comunitaria dell'inizio dell'anno. È un momento in cui il tempo viene rinnovato e la vita del villaggio viene simbolicamente rifondata. I membri del gruppo, oltre all'organizzazione hanno il compito di commentare gli avvenimenti dell'anno passato, dei problemi del villaggio e prendono decisioni importanti, nominano il nuovo capo (non solo del gruppo, ma nuovo capo religioso e sociale del villaggio) e chi rivestirà altre cariche interne. La loro strategia di potere difende i privilegi del gruppo, ma cerca di presentarli come fossero di collettiva utilità, identificandoli come interessi della comunità (mentre si tratta solamente di loro interessi).
    (pag.282)
    La strategia d'azione dei miyaza si basa sull'idea del villaggio come comunità religiosa autonoma, difendendo i confini della propria sfera d'azione per preservare il loro monopolio. Ottennero persino il riconoscimento ufficiale della loro autorità dai templi.
    La corporazione accettava la presenza di un Kannushi (sacerdote) a patto che sia uno dei propri membri.
    Selezionavano i propri membri e ne salvaguardavano i privilegi ed allontanavano gli esclusi. Nei miyaza non erano ammessi figli maschi non eredi, donne, membri di famiglie non imparentate con loro e i poveri.
    (pag.285)
    Si formarono più facilmente nelle aree rurali in cui era necessario l'aiuto tra famiglie imparentate.
    Capitava che quando nasceva il primo figlio maschio in una famiglia del miyaza, questo veniva scritto nei registri della corporazione, i figli a seguire erano esclusi. Questa era considerata la prima iniziazione nel gruppo. La seconda cerimonia si svolgeva al compimento del quindicesimo/sedicesimo anno, in concomitanza con il passaggio della pubertà. L'accettazione invece avveniva quando il giovane adulto succedeva al padre nella carica di capofamiglia.
    La struttura del gruppo era piramidale, quindi non tutti erano uguali, mettendo in contrapposizione i membri più anziani e più giovani, quelli più ricchi e quelli più poveri.
    Per l'ammissione veniva pagata una tassa, il cui pezzo era alto così da essere riservata alle famiglie più abbienti, veniva accettato chi aveva vissuto nel villaggio per un certo periodo minimo ed esso veniva adottato simbolicamente come "figlio" da un altro membro.

    Le liti interne portarono a delle scissioni che portarono le famiglie "inferiori" a fondare nuove corporazioni simili.
    Gli Shinza, una nuova organizzazione, si dimostrò disponibile verso le famiglie da sempre escluse e si alleò con i più poveri.
    Gareggiavano apertamente contro i miyaza, per cose come il patrocinato dei grandi santuari o il riconoscimento ufficiale della propria superiorità.
    I gruppi religiosi come i Ko o comunità di fedeli come le Nuove Religioni (più antichi degli shinza), erano strutture di tipo egalitario, poco differenziati nelle posizione e ruolo sociali, economicamente autosufficienti e solidali. Non vi era la possibilità di creare un'organizzazione piramidale. Questi gruppi si contrappongono alla gerarchia religiosa ufficiale e da questa sono infatti temuti, controllati e talvolta perseguitati.

    Con il processo d'industrializzazione del Paese mutò la società contadina. Emersero nuove classi sociali (di medi proprietari, proletariato rurale, famiglie di braccianti stagionali, donne lavoratrici) e soprattutto vi furono grandi spostamenti verso la città, così i clan persero la loro logica.
    Si diffusero le organizzazioni di culto dell'ujigami, a base territoriale, aperte a tutti quelli che risiedevano nel villaggio. Tutti, in quanto ujiko, "figli" del dio del territorio, erano ammessi.

    I miyaza sono ancora presenti in alcune zone del Giappone e attivi, considerati come corporazioni religiose di tipo esclusivo.


    • Il vertice del potere.
    (pag.292)
    Con l'affermarsi del potere di miyaza, mutò l'autorità religiosa e le cambiarono le regole.
    Il Toya, al vertice della gerarchia del villaggio, non fu più monopolio di una sola famiglia, passo nelle mani della corporazione. Era indispensabile essere un capofamiglia; anche oggi è una carica elettiva e limitata nel tempo. Venivano eletti prima coloro che risultavano avere antenati più antichi e poi i capi delle famiglie via via più giovani. (pag.293/294) La scelta doveva sembrare condotta dal dio e non essere discutibile.
    Il toya aveva la prerogativa di sovrintendere alla preparazione e alla celebrazione delle feste; officiava il rito della purificazione, che precedeva e concludeva ogni cerimonia; accendeva il fuoco sacro; invocava la discesa del dio; leggeva i norito; guidava le processioni; presentava le offerte agli dei e le serviva poi agli altri uomini.
    Doveva vivere in una condizione di purezza rituale, e su di lui e la sua famiglia gravano vari divieti e obblighi.
    La sua abitazione diviene il fulcro dell'attività religiosa della comunità, considerata pura e adatta ad accogliere la divinità; veniva circondata dallo shimenawa che la rendeva il luogo più sacro del villaggio.
    Il toya ha tutte le prerogative di un sacerdote, ma le due figure presentano delle differenze: in primis il maggior prestigio derivato dall'appartenenza alla gerarchia di santuari potenti e inoltre i sacerdoti erano più preparati in materia di dottrina.
    La carica del sacerdote (kannushi) è un diritto ereditario, che viene ceduto al momento della vecchiaia ad un altro uomo maturo.
    L'autorità del toya invece è precaria: dai sei anni nell'epoca di Kamakura, fino ad una riduzione ad un ciclo di coltivazione. Inoltre, pur essendo al vertice della gerarchia del villaggio non ha potere, non è lui che decide, ma attua le decisioni degli altri. È un mediatore dall'autorità ufficiosa che però ha una grande importanza all'interno della comunità.
    (pag.297)

    Somiglianze si trovano anche fra l'autorità del toya e quella dell'imperatore: rivestono un ruolo che li rende diversi e unici; devono rappresentare tutti e sancire l'ordine e la normalità sociale; entrambi inaccessibili; simbolo dell'identità, dell'unità e della continuità del gruppo; sono al vertice di una gerarchia sociale (dove lo stato è visto come "corpo sociale"); sono i mediatori fra il gruppo e l'antenato comune.


    • L'impurità della donna.
    Nel Giappone arcaico la donna godeva di un ruolo sociale e politico legittimato anche in ambito religioso, erano a conoscenza di riti e sapevano controllare il potere dell'estasi. (pag.306)
    Con il mutamento dei ruoli, cambiarono anche i codici di purezza e impurità. Il sangue diventa il simbolo primo dell'impurità, così come quello legato alla perdita della verginità, alle mestruazioni e al parto.
    Le donne dei villaggi durante il periodo delle mestruazioni dovevano rimanere isolate in una casa separata, per le persone in stato di impurità. Finito il periodo avveniva una purificazione rituale. Questo uso si andò perdendo con il tempo, ma la pratica di dormire in un angolo appartato restò, come anche l'usanza di mangiare i pasti da sole, cucinati su un fuoco diverso. Gli era vietato avvicinarsi al tempio e di partecipare a qualsiasi avvenimento religioso.
    Il sangue femminile era considerato un'offesa nei confronti della purezza del sacro.
    Le donne non potevano condurre i riti comunitari, perché la loro presenza attiva avrebbe potuto minare il rito e sovvertirne l'efficacia.
    Anche i giovani avevano un ruolo religioso a parte, poiché erano considerati ai margini sociali e avevano un ruolo ambiguo anche durante i riti. Le donne invece venivano considerate come estranee.
    Solo in alcuni matsuri la donna doveva avere un ruolo attivo, come miko durante il Kagura. Le miko erano però giovani donne, bambine, vergini, il cui ruolo era quello di donne simbolicamente negate. Nell'antichità le miko venivano possedute dal dio e profetizzavano, ma con il tempo il loro ruolo declinò e allo stesso tempo le sciamane vennero emarginate. (pag.310)
    Si pensava che lo scatenarsi della sessualità della donna portasse alla crisi la vita stessa. La cultura giapponese sembra quasi abbia timore delle donne, le quali spesso venivano accusate di essere possedute dalle volpi kitsune. Le bellezza era un'aggravante: più una donna era intelligente, forte e affascinante più era pericoloso, astuto e letale il mostro che si celava in lei. Era associata al selvatico, al disordine e alla morte.
    Gli uomini invece erano considerati i veri apportatori di fertilità i quali controllavano lo scatenarsi della sessualità femminile, e perciò venivano abbinati alla vita.

    Yama no kami è la divinità femmina e Ta no kami è la divinità maschio. (pag.313)


    • Le sciamane cieche e gli spiriti infelici.
    Le itako sono sciamane cieche che comunicano con gli spiriti dei morti. Sono sempre donne e a chiedere il loro intervento sono sempre donne. Operano nel privato, mettendo in comunicazione le singole famiglie con gli spiriti degli antenati.
    Sono ignorate dalla società ed emarginate, ignorate dalla gerarchia dei templi in quanto considerate pericolose a causa della forza contenuta nel suo potere sacrale.
    Le frasi che esse pronunciano durante la trance sono brani poetici o formule rituali con cui esprimono sofferenze e inquietudini portando la consulta ad una reazione in termini di liberazione psicologica. Essa deve vincere lo smarrimento di fronte al dolore. La spiegazione fornita dalla itako deve essere significativa per la consulta e dal contesto sociale (rito Kuchiyose).
    I suoi suggerimenti sono conservatori e rimprovera la fedele se cerca di ribellarsi ed uscire dagli schemi sociali tradizionali.

    La sua non è una vocazione, ma le fu imposta dalle circostanze: nata donna e cieca, in povertà, venne affidata fin da piccola ad una maestra itako; visse una vita di privazioni, sofferenze e mortificazioni.
    La cerimonia di ordinazione (Yumiwatashi) è un rito matrimoniale in cui viene data in sposa al dio. (pag.318) Le vengono donati: l'Iratakajuzu, un rosario buddhista con denti di animale; il Magatama, fatto di antiche monete che usa per pregare e le strofina in continuazione; l'Azusayumi, un arco il cui suono ha il potere di incantare lo spirito del morto; le Oshirasama, statuette di legno intagliato, a forma di uomo o cavallo, avvolte dal teli di seta per nasconderne la vista, queste diventano il ricettacolo dello spirito e la sciamana le scuote, le ascolta e vi parla.
    Un'itako non può sposarsi o avere figli, è l'opposto dell'okusan (la donna di casa), con la quale però instaura un profondo rapporto professionale. Infatti chi consulta le itako si sente sicura come se ad aiutarla fosse una madre, così si libera delle angosce accumulate. Le fedeli chiamano spesso l'itako "figlia di dio" e si dichiarano a loro volta sue figlie.


    • La forza dei liminali.
    Le Arukimiko, le Goze, le Utabikuni, sono figure religiose femminili simili alle itako. Vengono classificate come Kuchiyosemiko, distinguendole dalle jinjamiko, giovani vergini dei santuari. Sono povere, vagabonde, girano per i villaggi narrando leggende e cantando antiche ballate, ma allo stesso tempo curano, comunicano con i morti, conoscono l'arte della divinazione ed insegnano la dottrina buddhista arricchita da elementi di tradizione shinto.
    Assomigliano anche alla figura della geisha, esperte dell'intrattenimento e del piacere.

    La geisha assume un ruolo ambiguo perché di tratta di donne che operano all'esterno, nella sfera pubblica, conoscono i segreti del mondo maschile e le strategie dei personaggi politici. Non interferiscono con il nucleo famigliare del cliente, non cercano di sostituirsi alla moglie. Le sue relazioni sono precarie, ufficiose e non da figli. Vive con donne come lei, in una famiglia fittizio.
    L'okusan invece ha una posizione sociale superiore, gode di un rapporto stabile, vive nella famiglia che l'ha acquisita contribuendo a farla prosperare.

    Le Goze anche rientrano negli stessi ruoli sociali, ma si tratta di personaggi liminali, che dipendono da tutti e non hanno alcun legame. In una comunità verrebbero considerate fuoricasta, tendono quindi ad aggregarsi tra loro risiedendo in villaggi loro, formando delle vere e proprie famiglie (con a capo una madre, Oyakata) che a loro volta sono unite in un'aggregazione religiosa (Nakama, con una donna al vertice detta Gozegashira). Hanno il divieto di sposarsi, rischiando l'espulsione dalla famiglia per poi essere bollate come prostitute.
    Sono mediatrici fra i vivi e gli spiriti dei morti, vagabonde, ognuna segue il proprio itinerario, in questo modo conoscono una famiglia disposta ad ospitarle per qualche giorno. Raccontano storie e parabole.
    Il loro arrivo è sentito come l'approssimarsi dei Marebito, personaggi rituali che raffigurano i fantasmi dei morti che tornano.
    In certi periodi si distaccano dal contesto sociale, spostandosi sulle montagne considerate sacre, in un pellegrinaggio.


    • Majutsushi, il maestro delle illusioni.
    I majutsushi sono maghi, "maestri di illusioni", usano le loro capacità mentali per sostenere un singolo nella sua lotta contro il gruppo. Sono negromanti che hanno seguito un percorso spirituale comune agli altri esperti di estasi, ma a differenza dello sciamano che vince se stesso, sono rimasti schiavi del loro orgoglio, dei poteri della mente i quali vengono usati per imporre il loro volere sugli altri uomini. Riescono ad indurre un essere soprannaturale a possedere una persona fino a consumarne l'anima e la vita.
    Il potere del mago consiste nel ridurre all'obbedienza esseri mostruosi, per poi farli entrare nel corpo della persona designata e consumarlo.
    Si distinguono quattro tipi di possessioni:
    – la più debole, comporta fitte, dolori alle ossa, tosse, svenimenti improvvisi, perdita dell'appetito e febbri;
    – stati di confusione e squilibrio psichico, allucinazioni visive e uditive;
    – la persona cade in uno stato alterato di coscienza, ma l'entità malvagia non parla attraverso la sua bocca;
    – l'ultimo, quasi fatale, comporta uno sdoppiamento di personalità, il mostro comunica attraverso la voce del posseduto a cui risponde.
    Gli esseri che possiedono gli uomini sono esseri fantastici. (pag.326)
    Il rito magico ha una modalità in contrasto. (pag.327)
    La salvezza che il mago offre è fuori dagli schemi, anche se ha una sua logica, va a colmare delle carenze anche se l'effetto prodotto è eccessivo. Il meccanismo scatta quando la vittima si accorge che nessuno lo aiuta e allora cerca il mago per vendicarsi, con cui poi si allea e lo soddisfa, vittimizzando il gruppo. Nella società giapponese il gruppo prevale sul singolo che quindi si sente escluso, quasi inesistente; il mago da ragione a chi ormai sente di aver reciso ogni legame con la comunità, aiutandolo ad avere la sua rivincita. Non è il mago ad essere emarginato, ma colui che vi ricorre, che verrà considerato un Murahachibu (un ostracizzato), lo stesso accade a chi è vittima di magia, in modo meno marcato: si mantengono i rapporti sociali, ma viene visto come una persona "vuota". (pag.329)

    L'esorcista (Kitoshi) può riconoscere l'azione magica e liberare la vittima, guarendola. Costringe l'essere a lasciare il corpo della vittima e ad entrare in quello della medium (spesso una donna anche lei, in passato, stata accusata di essere posseduta e guarita) e a rispondere alle sue domande.
     
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